Papa Francesco ha stabilito che questo servizio venga riconosciuto come un ministero. Dalla Thailandia al Camerun le esperienze dei laici locali protagonisti nell’annuncio del Vangelo accanto ai missionari del Pime
«Non sarei in grado di immaginare una evangelizzazione e una cura pastorale acculturate, attente alle persone, radicate nella realtà, e quindi efficaci, senza la collaborazione e la mediazione dei catechisti». Dalla parrocchia di Ngao, sui monti della Thailandia, padre Maurizio Arioldi commenta così il nuovo motu proprio Antiquum ministerium che qualche settimana fa Papa Francesco ha dedicato ai catechisti, indicando la prospettiva di un riconoscimento del loro servizio come un vero e proprio ministero nella Chiesa.
Si parla molto anche in Italia di questa novità e di che cosa comporti. E proprio l’esperienza della missione – soprattutto nelle zone di prima evangelizzazione – può offrire una prospettiva interessante per cogliere realmente quanto la cura e la fiducia in queste figure siano un tratto essenziale per la vita di una comunità che vuole testimoniare Gesù a chi ancora non lo conosce.
«I nostri catechisti – racconta padre Arioldi – sono fedeli laici, generalmente sposati. Cominciano a svolgere la loro attività come leader delle proprie comunità cristiane disseminate sui monti: nella parrocchia di Ngao sono 16 in un raggio di 40 chilometri e il sacerdote può raggiungerne al massimo tre in un fine settimana. Per questo, sono loro a guidare la preghiera della comunità e a fare da punto di riferimento. Dopo anni di fedeltà in questo compito volontario, alcuni maturano la vocazione a diventare catechisti veri e propri, mettendosi a disposizione anche delle altre comunità».
Si tratta di un vero e proprio accompagnamento del missionario: «Ci aiutano a tradurre catechesi e omelie non solo linguisticamente ma anche culturalmente. A Ngao sono presenti tre etnie con lingue e culture diverse: come potrebbe un missionario, che già fa fatica a imparare il thailandese, a conoscerle davvero? Ma, soprattutto, un catechista laico aiuta il prete a camminare con i piedi per terra, ad ascoltare e tenere presenti i problemi reali della gente, a non essere astratto, a cogliere le sfide delle situazioni che cambiano anche nei nostri villaggi».
Essendo un impegno a tempo pieno, questi catechisti ricevono un salario: «Ma la Chiesa non può certo competere con chi cerca soldi e successo – commenta il missionario del Pime -. Molti nostri catechisti potrebbero guadagnare molto di più se facessero altro, ma hanno risposto a una chiamata».
La loro formazione è ovviamente essenziale e viene curata a livello locale. «Per i catechisti adulti e coniugati di etnia akha – continua padre Maurizio – purtroppo non c’è ancora un luogo che li accolga con un programma che tenga conto delle loro esigenze. Per questo, come Pime, stiamo pensando di utilizzare in parte la nuova Casa regionale di Chiang Rai, organizzando corsi monografici. Speriamo che diventi un piccolo centro al servizio di tutta la diocesi».
Anche in Bangladesh, i catechisti collaborano in maniera molto stretta con i missionari all’annuncio del Vangelo. Lo raccontava qualche settimana fa ad AsiaNews Maloti Hembrom, una vedova di etnia santal che – da catechista a tempo pieno – segue i gruppi di catecumeni di undici villaggi che si preparano a ricevere il battesimo. Hembrom ha studiato in un ostello nella parrocchia di Chandpukur, dove sono presenti i missionari del Pime. «Fin da bambina – racconta – mi piacevano i cristiani. Nel 2016, sono stata battezzata e da allora ho deciso di dedicare la mia vita all’annuncio del Vangelo. Dopo di me, anche i miei genitori hanno ricevuto il battesimo». «Ogni giorno – continua – visito nuovi villaggi e sto in mezzo a tribali che adorano la natura, gli alberi, le divinità indù. Sono persone che non conoscono Gesù, ma hanno sete di sapere. Come santal posso parlare con loro nella mia lingua e raggiungere in profondità il loro cuore. Non dico mai apertamente di accogliere Gesù: sono loro volontariamente a chiedere di ricevere il battesimo. Mi rendo conto che per toccare il loro cuore contano soprattutto il nostro comportamento e lo Spirito che lavora attraverso di noi».
Sui catechisti ci aveva visto lungo anche padre Silvano Zoccarato, che per oltre trent’anni è stato missionario in Camerun. Ma soprattutto ci aveva visto “largo”. Perché sin dall’inizio – negli anni Ottanta-Novanta, in un contesto di primissima evangelizzazione come quello dell’Estremo Nord del Paese – questo missionario del Pime aveva intuito che nessuna missione sarebbe stata possibile senza l’impegno dei laici. Del resto, era già stato così in passato, dopo che le prime due congregazioni di origine tedesca a cui era stata affidata quella regione erano state espulse in seguito alla Prima guerra mondiale. Ma l’idea di padre Zoccarato è stata che la formazione non dovesse riguardare unicamente gli uomini, ma coinvolgere tutta la famiglia.
Per questo, su impulso del vescovo di Yagoua, ha dato vita a un centro di formazione a Doubané, poco distante dalla missione del Pime di Guidiguis: una realtà, a tutti gli effetti, “formato-famiglia”. Qui, infatti, i catechisti potevano rimanere per i tre anni della formazione tenendo con sé i propri familiari che, a loro volta, venivano coinvolti in diversi corsi. Lo scopo non era solo quello di non smembrare le famiglie per un periodo così lungo; soprattutto era quello di creare i primi nuclei di cristiani, che sarebbero diventati naturalmente “testimoni” di una fede che all’epoca era ancora sostanzialmente sconosciuta nei villaggi e tra le tribù di origine.
Il centro, infatti, accoglieva famiglie di varie provenienze etniche, che imparavano a conoscersi e a convivere, condividendo la stessa quotidianità e la stessa fede. In questo modo, diventava anche un luogo di formazione comunitaria che coinvolgeva tutta la famiglia, sia con corsi specifici per i catechisti, sia con attività di riflessione, preghiera e condivisione. Oltre che di lavoro. Il centro infatti disponeva di un grande campo che tutti erano tenuti a coltivare per la loro stessa sussistenza.
«Quello che avevamo in mente – ricorda padre Zoccarato (nella foto) che, dopo una “parentesi” di dieci anni in Algeria, torna spesso in Camerun per insegnare nel seminario del Pime di Yaoundé – era una formazione globale, umana e cristiana. Questa iniziativa “residenziale”, diversamente dalle sessioni settimanali di studio per i catechisti, rispondeva alla necessità di una “conversione” fondamentale: non si trattava di imparare semplicemente degli insegnamenti da ripetere, ma di rispondere a una chiamata che impone un radicale cambiamento di vita per essere veri testimoni della fede: famiglie nuove grazie all’incontro con Dio».
Oltre alla formazione catechetica, biblica e liturgica specifica, nel centro si tenevano anche corsi di francese e inglese, animazione rurale, educazione alla vita di coppia e di famiglia e altri ancora. «Ricordo con emozione quegli anni al centro!», s’infiamma padre Adolphe Ndouwe che è uno dei “frutti” di cui padre Silvano va più orgoglioso. Adolphe era uno dei dodici figli del suo collaboratore più valido e fidato, Pierre: un adolescente che in quel periodo ha maturato la vocazione sacerdotale e missionaria (insieme ad altri quattro divenuti preti diocesani) e che oggi è vice rettore del Seminario teologico del Pime di Monza, dopo aver vissuto dieci anni in missione in Bangladesh.
«è stato un periodo importante per me come per le altre famiglie che hanno vissuto al centro di formazione – dice padre Adolphe -. Ecco perchè sono molto contento che questa esperienza stia andando avanti sotto la responsabilità della diocesi.
I catechisti nella mia terra d’origine sono ancora oggi figure centrali dell’evangelizzazione. Sono loro che testimoniano ogni giorno la Parola di Dio in mezzo alla gente. E sono i primi e principali attori nella trasmissione della fede. Noi, che veniamo dai quei contesti, sappiamo bene quanto sia importante il loro ruolo. E il riconoscimento di Papa Francesco non fa che ribadirlo».
Anche in Guinea-Bissau, il Pime è sempre stato ed è tuttora in prima linea nella formazione dei catechisti, dal momento che – insieme alle Missionarie dell’Immacolata – è uno dei principali attori dell’evangelizzazione di questo Paese. Così lo scorso 15 giugno ha riaperto il centro di formazione catechetica “Beato Isidoro Bakanja”, che era stato originariamente creato da monsignor Settimio Ferrazzetta, primo vescovo della Guinea-Bissau, nel 1997, nei pressi di Mansoa.
Chiuso nel 2004, è stato riaperto quest’anno grazie all’impegno del Pime che ha finanziato (attraverso la Fondazione di Milano e la missione Usa) i lavori di ampliamento; ma soprattutto ha messo a disposizione a tempo pieno un suo missionario nel ruolo di coordinatore, padre Marco Pifferi, affiancato da suor Alessandra Bonfanti, missionaria dell’Immacolata. Anche qui, la dimensione è quella della famiglia. Saranno infatti sei – provenienti da entrambe le diocesi del Paese, Bissau e Bafatá – le prime che affronteranno i tre anni di corso. «L’obiettivo – ha precisato padre Pifferi – è la formazione di famiglie-catechiste al servizio della Chiesa in Guinea-Bissau e, in particolare, delle realtà rurali dove potranno essere testimoni della vita cristiana e protagoniste dello sviluppo del territorio in cui vivono».
«Durante questo periodo di formazione – ha incoraggiato durante l’inaugurazione della struttura l’amministratore apostolico di Bissau, monsignor José Lampra Cá – cercate di conoscere Gesù Cristo, per prenderlo come modello di vita per poi contaminare positivamente gli abitanti dei vostri villaggi quanto vi ritornerete».