La storia del villaggio che, durante la pandemia, era sigillato per tutti tranne che per chi portava gli stupefacenti
Suchat, un ragazzo che a 24 era già dipendente da ogni tipo di droga, era in attesa di poter entrare in un centro di recupero per tossicodipendenti gestito dai missionari protestanti quando nel suo villaggio tribale, nel Nord della Thailandia, sono stati riscontrati diversi casi di Covid-19. L’abitato è stato così isolato, con un gruppo di locali a darsi i turni per tenere chiusa l’unica strada che, attraverso la foresta, dà accesso all’area.
Con il nostro team abbiamo così organizzato una spedizione per portare generi di prima necessità da lasciare al posto di blocco, in modo da essere di sostegno alla gente isolata in questo angolo remoto della foresta. Durante il viaggio, il pensiero andava a Suchat e alle sofferenze che un’astinenza forzata dalle varie droghe da cui era dipendente avrebbe creato: la mia preoccupazione più grande era che il dolore fisico ne minasse la determinazione a intraprendere un cammino di liberazione da questa schiavitù. Giunti all’ingresso del villaggio ho chiesto di poter parlare con Suchat il quale, arrivando, non mi era sembrato particolarmente sofferente: segno che non era in crisi di astinenza. Di fronte alle mie domande, la risposta è stata disarmante: in conseguenza del dilagare della pandemia, il capovillaggio aveva sigillato l’area a eventuali venditori di qualunque merce, tranne a coloro che portavano la droga. Una decisione presa proprio per la larga diffusione della tossicodipendenza tra la gente.
La mia amara conclusione è stata che neanche il Covid, che pure ha paralizzato il mondo tenendoci ostaggio di clausure forzate, è riuscito a sconfiggere o arginare questa piaga. La zona nord della Thailandia, nota come Triangolo d’oro, ha nel commercio di sostanze stupefacenti (oppio e oggi anche droghe sintetiche) un problema endemico che purtroppo ha permeato le vite quotidiane dei nostri villaggi. La lotta che la Chiesa cattolica ha dichiarato, tramite i suoi missionari, a questo dramma sembra non riuscire ad arginare né il consumo né il commercio.
Per un missionario, entrare in una casa e vedere in una stanza 3 o 4 persone sdraiate a terra su un fianco nell’atto di fumare l’oppio crea profonda tristezza, anche al pensiero del grande costo umano che questa schiavitù creerà alla famiglia. Uno dei momenti più disarmanti che ho vissuto finora è stato quando, benedicendo una casa appena costruita, avevo chiesto informazioni sulla famiglia… la risposta mi ha profondamente colpito: solo dopo la morte del papà, che era un oppiomane, la mamma e le due figlie erano riuscite a uscire dallo stato di profonda povertà a cui la dipendenza del capofamiglia le aveva condannate. La droga è un cancro capace di far marcire ogni cosa, anche l’amore più sacro: quello che lega un padre e una madre ai propri figli. Una sorta di “divinità del male”, a cui i propri adepti devono sacrificare ogni cosa, persino la vita, il benessere e il futuro dei propri figli. MM