Gholam Najafi, giunto in Italia a sedici anni, racconta come l’istruzione e la bellezza siano l’unica speranza per il suo Paese
Mi ricordo di una volta quando, da bambino, nel nostro villaggio hazara arrivarono i nomadi pashtun. Le loro pecore calpestavano i campi di grano coltivati ma io non riuscivo a spiegare che per noi era un problema, visto che parlavamo due lingue diverse: l’unico modo per farmi valere era lanciare sassi.
Potrei dire che quella fu la prima esperienza dell’importanza di studiare e comprendere la lingua e la cultura degli altri: una lezione che avrei imparato bene nel corso della mia vita da emigrato.
Vengo da un piccolissimo villaggio, nella regione di Ghazni. Da bambino facevo il pastore e il contadino: fino ai dieci anni ho trascorso la mia vita sulle montagne, senza conoscere la pluralità che caratterizzava l’Afghanistan e il mondo. Non avevamo documenti e vivevamo in grande semplicità. Mia mamma sapeva filare e ricordo che ogni primavera realizzavamo un tappeto con la lana delle nostre pecore e capre. Si trattava di una procedura lunghissima ed eravamo noi a produrre anche i colori per tingere la lana, utilizzando le piante delle nostre montagne. A quei tempi non conoscevamo ancora il denaro, era uno stile di vita che oggi perfino a me riesce difficile descrivere. Era dura, si lavorava nove mesi per poi sopravvivere nei tre mesi invernali. Ma c’erano anche momenti di serenità. Ricordo le poesie dei mistici sufi, che ci insegnavano da bambini, così come i brani del Corano. La fede, al di là dell’islam, comprendeva anche tante tradizioni con aspetti di “paganesimo”, c’erano moltissimi santuari in cui ci si recava in pellegrinaggio.
Poi arrivò la guerra civile, dopo la liberazione dall’occupazione sovietica, e mio padre fu ucciso. Così, insieme a mio fratello, nel 2000 lasciai l’Afghanistan e intrapresi un lungo viaggio che, attraverso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, dopo sei anni mi portò in Italia. Qui per molto tempo ho fatto fatica a entrare in relazione con la gente, perché non conoscevo la lingua e per me era un mondo completamente nuovo.
Poi ho cominciato a frequentare la scuola e a imparare l’italiano: ho stretto le prime amicizie e, pian piano, sono venuto in contatto con la ricchissima cultura italiana. A Venezia, dove ho trovato una nuova famiglia che mi ha accolto, ho conosciuto Dante, Manzoni… ed è stata proprio la letteratura del mio Paese d’adozione a farmi riscoprire le mie radici afghane. Le poesie che avevo ascoltato da piccolo le ho ritrovate a Ca’ Foscari, quando ho iniziato a studiare all’Università, al corso di Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea.
E lo studio mi ha permesso anche di cominciare a scrivere e dare così voce alle storie e tradizioni del mio Paese: anche se fisicamente mi trovavo lontano, con il pensiero viaggiavo sulle montagne afghane. Nei tre libri che ho pubblicato finora racconto il mondo della mia infanzia, quando la neve cadeva abbondante, quando i viaggiatori che passavano al villaggio venivano ospitati nelle nostre case e noi offrivamo loro il cibo, e se lo spazio non era sufficiente andavano a dormire nella moschea, che era un po’ anche un caravanserraglio…
Ma è grazie all’Italia che io racconto l’Afghanistan: se non avessi imparato l’italiano probabilmente non avrei mai scritto nulla. A volte il nostro viaggio, e anche i nostri dolori, ci permettono di scoprire una nuova bellezza. Quando viaggiamo portiamo con noi un carico di storia, di poesia, di arte e contemporaneamente incontrando la diversità assorbiamo tante altre ricchezze, come i fili del tappeto afghano, che con i propri colori diversi contribuiscono a creare un disegno nuovo e originale.
Solo la poesia, l’arte, la cultura possono unire l’umanità. E questo vale anche per l’Afghanistan, che è composto da tante etnie, lingue e tradizioni diverse che devono imparare a convivere. E il primo passo è la conoscenza reciproca, che può venire solo attraverso lo studio. Ecco perché l’unica soluzione che io vedo per il mio Paese è l’istruzione.
L’anno scorso sono tornato a casa per alcuni mesi, anche per partecipare a dei seminari nelle università, e girando per i villaggi ho realizzato chiaramente questa situazione di frammentazione: una zona è abitata solo da hazara, una da tagiki, una da uzbeki, una da pashtun… e veramente questi gruppi sono divisi, non si capiscono, non comprendono il punto di vista e i problemi dell’altro. Se vogliamo trovare una via per la convivenza dobbiamo partire dallo studio. In verità non abbiamo alternative, perché nessuno potrà mai eliminare gli altri. Anche noi hazara, che tradizionalmente abbiamo subito discriminazioni e forme di intolleranza violenta e quindi in tanti abbiamo scelto di vivere all’estero, prima o poi torneremo. E, come tutti gli afghani emigrati, torneremo con abitudini e idee diverse, un po’ italianizzati, o francesizzati, o americanizzati… E dovremo saper creare un’unità dalla diversità. MM
Dal convegno “Afghanistan, crocevia di culture” (Centro Pime, 18 giugno)