Nel cuore della Guinea-Conakry anche il popolo dei malinké ha deciso di dedicarsi al mercato estrattivo, dominato dalle multinazionali. Con guadagni ben più ridotti e a fronte di un lavoro quotidiano duro, pericoloso e dannoso per la salute
In Guinea Conakry, la febbre dell’oro è esplosa nei primi anni del Duemila. Le grandi compagnie minerarie estere avevano da poco abbandonato l’estrazione di altri minerali, avendo constatato che le risorse aurifere del Paese erano molto più redditizie. Purtroppo questa febbre ha colpito non solamente magnati occidentali, ma anche gran parte della popolazione locale della prefettura di Kouroussa, nell’Alta Guinea.
I malinké, che da millenni vivono in queste terre, hanno a loro volta deciso di darsi all’estrazione del prezioso metallo e organizzare il proprio commercio. Naturalmente, però, le risorse dei locali sono minime rispetto alla potenza delle grandi società, e allo stesso modo i guadagni dei minatori tradizionali non sono paragonabili a quelli delle multinazionali, mentre il loro lavoro quotidiano è duro, pericoloso e dannoso per la salute. Ogni giorno, in centinaia di siti estrattivi, gli uomini si affrettano a entrare nelle viscere della terra con il miraggio di trovare un po’ di oro. Negli ultimi decenni sono nate delle vere e proprie “popolazioni flottanti”, che vivono e si spostano in base alle terre ritenute più ricche di riserve aurifere. I loro villaggi sono ai margini dei centri urbani, lungo le strade che collegano le grandi città del Paese africano.
Insediamenti fatiscenti, dove i servizi essenziali sono pressoché inesistenti. Senza acqua potabile, senza energia elettrica e molto spesso senza neanche nulla da mangiare. I molti bambini che popolano questi villaggi non vanno a scuola e spesso passano le giornate soli ai bordi della savana. Ogni mattina, i genitori lasciano l’accampamento per raggiungere le miniere, mentre i figli più piccoli restano al villaggio a occuparsi delle faccende domestiche e i più grandi si prendono cura dei fratelli minori. La vita di un minatore tradizionale è tutt’altro che semplice. Le mansioni, in genere, sono differenti a seconda del sesso. Gli uomini sono quelli destinati a calarsi negli stretti cunicoli che si addentrano nella terra per circa dieci metri: tunnel che si estendono verticalmente per poi ramificarsi orizzontalmente. Il tutto senza l’ausilio di assi che possano sostenere il terreno e proteggere dalle frane. Questa mancanza di misure di sicurezza aumenta enormemente la probabilità che si verifichino incidenti: molto spesso, per farsi coraggio, i minatori fanno uso di sostanze alcoliche e medicinali psicoattivi. Miscele letali che, purtroppo, sono poi causa di molti comportamenti malsani e che minano la serenità del gruppo. Alle donne, invece, viene dato il compito di spaccare le pietre e smuovere le zolle, per poi pulire con l’acqua la terra e separarne l’oro. Si tratta di un’operazione molto delicata, eseguita con una tecnica tale che dopo il lavaggio a rimanere nelle bacinelle sono solo piccole pagliuzze gialle, visto che l’oro presente nelle terre rosse della regione è prevalentemente polverizzato. Una volta raccolte le micro particelle di metallo, bisogna riunirle insieme: di questo si occupano gli uomini, che grazie al fuoco e al mercurio riescono a solidificare tutte le piccole schegge raccolte. L’utilizzo del mercurio è fondamentale per poter compattare l’oro, ma spesso il processo avviene vicino ai fiumi e le scorie vengono gettate nell’acqua causando danni ecologici all’ambiente circostante.
Nonostante queste criticità, la prefettura di Kouroussa e la società malinké hanno un legame fondamentale con il prezioso metallo giallo, che oltre all’agricoltura rappresenta l’unica risorsa disponibile per generare un reddito: una fonte di guadagno “a doppio taglio”, che ha strutturato con il passare del tempo la società e la cultura malinké. Negli ultimi anni poi, oltre alla popolazione locale, nelle miniere tradizionali guineane stanno arrivando molti profughi provenienti dagli Stati limitrofi, in particolare uomini e donne del Burkina Faso che entrano illegalmente in Guinea con il miraggio di un’opportunità di lavoro. Un fenomeno che sta avendo ripercussioni anche a livello sociale. L’aspetto più triste della vita in miniera è quello relativo alla salute. Chi estrae l’oro, ma anche chi aspetta a casa i parenti minatori, deve fare fronte a molte difficoltà. Ai vari infortuni legati all’attività mineraria si devono infatti sommare i purtroppo frequenti incidenti domestici di cui sono vittime i bambini, lasciati per lungo tempo da soli.
La malaria è un altro fardello che ogni anno, in una sorta di ritualità, appare durante la stagione delle piogge. Per le famiglie dei minatori si tratta del virus più comune: poiché i siti estrattivi si trovano vicino alle riserve idriche della provincia – habitat dove è più diffusa la zanzara anofele -, il tasso di positività è molto elevato. Anche in questo caso, i bambini sono quelli maggiormente vulnerabili e molto spesso non sopravvivono. Sono ancora i piccoli, poi, quelli più colpiti dalla malnutrizione e dalla diarrea, che causano ogni anno molti decessi: un tasso di mortalità legato alla povertà e ai bassi standard igienici. Nei villaggi sorti in concomitanza con le attività minerarie, infatti, l’acqua potabile è inesistente e i bambini devono bere quella piovana (quando c’è): tra loro sono molto diffuse disidratazione e malattie della pelle.
Una vita durissima che, tuttavia, in troppi casi per questo popolo è l’unica possibile. Senza contare la situazione critica nell’intera Guinea Conakry. L’anno scorso il piccolo Paese dell’Africa occidentale ha dovuto fronteggiare numerose emergenze, sia sul piano sanitario sia su quello politico. Dopo il colpo di Stato del 5 settembre a opera di Mamandy Doumbouya ai danni dell’ex presidente Alpha Condé, gli assetti politici sono radicalmente cambiati. La situazione attualmente sembra stabile ma c’è ancora, da parte della popolazione locale, un forte timore.
Un altro aspetto molto delicato è quello relativo alla sanità: nell’ultimo anno si sono verificati casi – per fortuna isolati – di Ebola e di Marburg (un’altra febbre emorragica molto simile all’Ebola) e questa è solo la punta dell’iceberg di una situazione ben più complicata, con un altissimo tasso di mortalità infantile (in particolare nella fascia 0-5 anni) per malaria, malnutrizione, diarrea, morbillo, dovuta a ragioni sociali, economiche e di mala gestione della salute pubblica (l’accesso alle cure e ai vaccini di base non è gratuito).
Tra i malinké, il forte senso di solidarietà comunitaria rappresenta una risorsa fondamentale. “Nous sommes ensemble”, “noi stiamo insieme” è il motto di questo popolo, con cui chi scrive ha condiviso sette intensi mesi, durante i quali abbiamo riso e sofferto insieme. La miseria dei villaggi era in contrasto con questa voglia di condividere e donare, anche se poco. Questo aspetto della cultura malinké – l’aiuto reciproco, il sostenersi a vicenda – è un importante fattore di resistenza: anche se ci sono grandi difficoltà, insieme si possono superare. MM