Viaggio alla scoperta della piccola comunità cattolica della Mongolia, dove il 31 agosto arriverà Papa Francesco. Un Paese che sta ricostruendo la sua identità dopo 70 anni di comunismo e la difficile transizione democratica
Padre Ernesto scherza con un bimbo seduto vicino al nonno sull’autobus imbottigliato nel traffico di Chinggis Avenue, nel centro di Ulan Bator. Gli ingorghi alle ore di punta sono una costante nella capitale mongola, protagonista di una crescita urbana tanto fulminea quanto disordinata. Attraversando la città, che in un trentennio ha triplicato la sua popolazione fino a raggiungere un milione e 700 mila abitanti, gli edifici in costruzione si susseguono senza sosta: sedi di compagnie e banche, centri commerciali e un’infinità di alti palazzi residenziali che spesso sostituiscono i casermoni di epoca sovietica, desolanti ma con almeno il pregio di sorgere sempre accanto a vasti cortili e scuole per i ragazzi.
«Oggi, invece, spuntano dappertutto nuove case ma poi mancano parcheggi e strade adeguate: circolare è una sfida di abilità!». Padre Ernesto Viscardi, classe 1951, indica con il braccio i quartieri che scorrono fuori dal finestrino, e che dal 31 agosto al 4 settembre accoglieranno Papa Francesco durante la sua storica visita a una Chiesa giovane e minuscola. Il sacerdote, bergamasco di Villa d’Almè, li conosce molto bene. Nel 2004 arrivò in Mongolia per unirsi al piccolo gruppo di missionari della Consolata che l’anno precedente aveva stabilito una presenza in una terra fatta di estremi, a cominciare da quelli climatici, intenta a ritrovare un’identità dopo la transizione democratica seguita a settant’anni di comunismo.
«Un’identità che si sta ricostituendo intorno ad alcuni elementi chiave: il territorio, il mito del grande condottiero Gengis Khan, che all’inizio del 1200 riuscì a riunire le riottose tribù mongole per farne un esercito che avrebbe conquistato un territorio esteso dalla Corea alla Polonia, e poi la tradizione buddhista», racconta padre Ernesto. Durante la lunga era di simbiosi con il gigante sovietico, la spiritualità era stata bandita con la forza dalla vita quotidiana: in seguito alle purghe iniziate nel 1937 migliaia di templi furono distrutti, i monasteri buddhisti espropriati, almeno 15 mila lama massacrati.
L’autobus supera il ponte della Pace costruito negli anni Cinquanta dalla Cina, l’altro ingombrante vicino della Mongolia, e si dirige verso la piazza centrale, su cui si affaccia la sede del governo e dove periodicamente vanno in scena le proteste di cittadini esasperati dalla politica corrotta e dal crescente costo della vita: qui due terzi degli abitanti sperimentano qualche forma di povertà. E basta alzare lo sguardo oltre i grattacieli di vetro del centro verso le colline che circondano la capitale per vedere dove vive buona parte di questi poveri: il panorama sulle pareti in salita è punteggiato di macchioline bianche. Avvicinandosi, man mano che l’autobus si arrampica su strade meno trafficate, diventa chiaro che si tratta di ger, le tradizionali tende dei pastori nomadi.
«Negli ultimi anni, sempre più famiglie dalle steppe scelgono di trasferirsi nella capitale, in cerca di uno stile di vita meno duro o in seguito alla perdita del bestiame per inverni particolarmente rigidi», spiega il missionario. «Ben pochi, però, possono permettersi un appartamento in muratura». Gli altri, semplicemente, piantano la propria tenda dove trovano un pezzo di terreno libero: i ger district, privi di fogne e di accesso all’acqua corrente, ospitano oltre la metà dell’intera popolazione di Ulan Bator.
Proprio nelle tende tradizionali, microcosmi in cui lo spazio è minuziosamente organizzato secondo i simboli della cultura sciamanica, ha avuto in un certo senso origine anche la missione cattolica nella Mongolia contemporanea, dopo che il cristianesimo, giunto con la Chiesa nestoriana nell’VIII secolo, era scomparso per centinaia di anni. Nel 1992, pochi mesi dopo l’approvazione della nuova Costituzione che garantiva libertà di espressione e di religione, un drappello di tre missionari della congregazione belga del Cuore Immacolato di Maria si stabilì a Ulan Bator. Tra di loro c’era il sacerdote filippino Wenceslao Padilla, nominato superiore dell’allora missio sui iuris (prefettura apostolica dal 2002), che da subito si dedicò a senzatetto, disabili, anziani e soprattutto ai bambini di strada, di cui pullulavano le vie della città durante la durissima crisi economica dopo la caduta del comunismo. Quando, alcuni anni dopo, iniziarono i lavori per la costruzione della cattedrale, ci si ispirò proprio alla struttura di una ger: la chiesa, a fianco della quale oggi sorge anche la clinica St. Mary per i poveri, ha la forma tonda, una bassa cupola conica e, all’interno, il soffitto a raggiera in legno.
Una vera tenda, poi, ospitò oltre vent’anni fa la prima struttura di accoglienza fondata dai Salesiani, che oggi gestiscono anche una grande scuola di formazione in cui duecento allievi e allieve imparano un mestiere. Nelle aule spaziose della Don Bosco School i ragazzi sono intenti a seguire laboratori di cucito e corsi di segreteria, mentre nell’officina meccanica due giovani armeggiano intorno a un motore.
«Per chi arriva dalle campagne senza competenze professionali, la vita nella capitale diventa molto difficile» spiega padre Paul Leung, salesiano originario di Hong Kong che gestisce l’istituto. «Grazie ai nostri corsi, invece, i giovani non hanno difficoltà a trovare un impiego». Alcuni di loro sono diventati insegnanti alla Don Bosco School. E qualcuno ha scelto di battezzarsi. «A scuola lo Stato vieta di parlare di religione – chiarisce padre Paul – ma noi veicoliamo i valori cristiani nella quotidianità, o nel tradizionale appuntamento salesiano del “buongiorno” del mattino. Così, c’è chi poi decide di approfondire, magari cominciando a frequentare il catechismo in una delle parrocchie».
In questi primi tre decenni di presenza missionaria, quelle nate a Ulan Bator sono sei. Altre sono sorte a Erdenet, Darkhan e Arvaikheer (dove la chiesa è tuttora una ger). Da questo impegno di primo annuncio, portato avanti attualmente da 77 tra sacerdoti, fratelli consacrati, religiose e laici, è fiorita una piccola Chiesa che oggi conta circa 1.500 battezzati, molti dei quali attivi come catechisti, educatori, membri di cori, volontari in attività caritative.
Nella parrocchia di Santa Sofia, che sorge a Bayanhushuu nel bel mezzo di un ger district, dove le strade in terra battuta quando piove si trasformano in ripidi pantani, ogni giovedì un gruppo di adolescenti si unisce al parroco padre Thomas Ro Sangmin per andare a distribuire cibo alle famiglie che vivono al limitare di una discarica. Come il giovane sacerdote, fidei donum della diocesi di Daejeon, dalla Corea del Sud proviene buona parte dei missionari oggi presenti in Mongolia: ben 23.
Oltre al segno di una vicinanza culturale interessante – qui la musica, le serie tv, la gastronomia coreane imperversano -, si tratta della testimonianza di una Chiesa attiva e “in uscita” di cui è esempio anche, nello stesso distretto, la bellissima scuola fondata dalle suore di Saint Paul de Chartres. Nel corso della nostra visita gli allievi si stanno preparando al saggio di fine anno: i bimbi del kindergarten montessoriano provano sul palco uno spettacolo di danza, mentre un gruppo di liceali si esercita per l’esibizione con il morin khuur, il tradizionale violino a testa di cavallo.
Ma la Chiesa, in Mongolia, proviene davvero dai quattro angoli del mondo: 27 i Paesi censiti. Tra le Missionarie della Carità che accolgono anziani bisognosi ci sono indiane, bangladesi, ruandesi; la responsabile della Caritas suor Anna Waturu è kenyana, mentre tra i padri e le suore della Consolata sono rappresentate Europa, Africa e America Latina. Della Colombia è originaria suor Esperanza Becerra Medina, che ogni giorno raggiunge Chingeltej, distretto periferico abitato da famiglie a basso reddito dove disoccupazione e alcolismo vanno spesso a braccetto.
«Qui abbiamo fondato la biblioteca Consolata Mandah Naran, cioè “sole che sorge”, uno spazio per lo studio e la socializzazione di bambini e adolescenti», racconta la suora mentre distribuisce ai ragazzi ciotole colme di yogurt. «Offriamo sempre una merenda abbondante, oltre a un luogo adeguatamente riscaldato durante i lunghi inverni». Un dettaglio importante, quando le temperature scendono fino a 40 gradi sotto lo zero.
«Ultimamente, con un gruppetto di adolescenti abbiamo iniziato anche un semplice programma di avvicinamento alla fede cristiana», racconta suor Esperanza. Proprio così, attraverso la testimonianza spontanea di vita, in questi anni in Mongolia sono nate anche le due prime vocazioni locali: padre Joseph Enkh-Baatar è stato ordinato sacerdote nel 2016, mentre due anni fa è stata la volta di padre Peter Sanjajav, oggi 38enne.
«Quando, da bambino, arrivai da Arvaikheer con mia madre, mio fratello e mia sorella, furono le suore di Madre Teresa ad accoglierci», racconta. «Venivamo da un contesto molto povero e io non avevo mai studiato. Ma, grazie alla loro dedizione, a quindici anni imparai a leggere e a scrivere». Fu poi padre Kim Stephano Seon Hyeon, fidei donum sudcoreano scomparso improvvisamente a maggio, a prendersi cura di lui per anni. «Un giorno gli chiesi a bruciapelo: “Ma chi ve lo fa fare? Venire qui, lontano dal vostro Paese, con questo freddo, a occuparvi di noi?”. Lui, per tutta risposta, mi mostrò il crocifisso».
Da quel giorno, un seme si infilò nel cuore di Peter. E, con il tempo, sarebbe germogliato: anni di seminario in Corea del Sud, difficoltà con gli studi e la lingua sconosciuta, «ma non gettai la spugna, come mi avevano insegnato le suore. Quando diventai sacerdote, tutti i miei famigliari, anche quelli buddhisti, erano contenti per me, perché vedevano la mia gioia. Oggi la mia storia mi aiuta a essere un ponte tra culture ed esperienze diverse, a fianco di chi è in ricerca». Dalle steppe ai grattacieli.