Stretta tra Cina e Russia, la Mongolia cerca di ridurre la dipendenza dai due vicini. E mentre la gente è esasperata da corruzione e inflazione, cresce il populismo
In piazza Sukhbaatar i manifestanti sventolano bandiere mongole e urlano slogan contro la corruzione dei politici. Alle loro spalle, l’imponente statua di Gengis Khan campeggia sulla facciata del palazzo del governo, che lo scorso dicembre fu assaltato da una folla inferocita in seguito al più grave scandalo di mazzette nella storia del Paese.
Se quella vicenda riguardava una colossale sottrazione di fondi pubblici da parte di funzionari della società statale Erdenes Tavan Tolgoi, che forniva illegalmente carbone alla Cina, oggi i cittadini di Ulan Bator se la prendono con la mancanza di trasparenza del Fondo statale per i prestiti a chi vuole studiare all’estero: secondo un’indagine indipendente pare che il governo abbia ingiustamente assegnato borse di studio a figli e parenti di politici.
«I governanti rubano e noi non arriviamo a fine mese!», si lamenta una donna di mezza età che regge un cartellone di protesta. L’esasperazione cresce nel Paese che, dopo gli effetti della pandemia di Covid-19, vive ora i contraccolpi dell’invasione russa dell’Ucraina. Le sanzioni imposte a Mosca impattano sulle finanze di Ulan Bator: dai mancati introiti sulle rotte aeree Europa-Asia alle difficoltà nelle vitali importazioni di carburante. Per non parlare della carenza di materie prime che – come ha lamentato il premier Oyun-Erdene – «impedisce le nostre forniture di alcuni prodotti di uso quotidiano».
In questo scenario, aumenta l’insofferenza per il “peccato originale” della Mongolia post comunista: all’inizio degli anni Novanta, il passaggio dal modello socialista (con relativa collettivizzazione economica) a un sistema multipartitico e capitalista portò con sé un’indebita commistione tra settore pubblico e privato, con un conflitto di interessi endemico a quasi tutti i livelli. Oggi l’indice di Transparency International sulla percezione della corruzione posiziona la Mongolia al 116esimo posto su 180 Paesi, con il 70% dei cittadini che la definisce “un grosso problema”.«È ora di mettere in atto una vera svolta in tema di trasparenza degli enti statali», conferma Chinguun Otgonsuren, senior researcher presso il think tank Strategy Academy di Ulan Bator. «La gente deve chiedere riforme, anche scendendo in piazza: le manifestazioni di pochi mesi fa hanno spinto il governo a rendere pubblici una serie di illeciti e i loro responsabili. Sul fronte della burocrazia sono stati fatti notevoli passi avanti attraverso la recente rivoluzione digitale. Ma la partecipazione resta un tema chiave: dobbiamo valorizzare le opportunità della democrazia, nonostante i limiti del nostro sistema».
Tra le sfide più importanti, Otgonsuren vede la lotta alla disoccupazione e lo sviluppo economico oltre l’attuale modello di sfruttamento delle risorse minerarie, ma anche il superamento del populismo: «Gli effetti della cultura socialista si fanno ancora sentire – riconosce -. Nel periodo filo-sovietico i cittadini erano alienati dalla politica e si accontentavano di avere un lavoro e il necessario per vivere. Anche oggi i mongoli non capiscono il significato profondo del voto: da una parte hanno l’impressione che nel sistema maggioritario la loro preferenza non conti, dall’altra non sono interessati a una visione politica di lungo periodo ma ai benefici concreti nel breve termine. E così il populismo trionfa». Anche tra i giovani? «La tecnologia offre alle nuove generazioni la possibilità di allargare lo sguardo e questo aumenta il loro senso critico», commenta il ricercatore, lui stesso 24enne. «In generale non abbiamo nostalgia dell’era socialista, ma i problemi attuali, con la svalutazione della moneta e le diseguaglianze nell’accesso al sistema sanitario e scolastico, spingono qualcuno a chiedersi se in fondo non fosse meglio il modello passato».
In realtà, prima della recente battuta d’arresto la Mongolia – 3 milioni e mezzo di abitanti distribuiti in un’area geografica vastissima, incuneata tra Russia e Cina – stava vivendo un boom sorprendente. Negli ultimi 25 anni, grazie ai proventi di risorse come carbone, rame, oro, minerali di ferro e terre rare, il Paese ha triplicato il suo Pil. Ma le diseguaglianze sono notevoli e le incognite importanti.
«Quasi il 90% delle nostre esportazioni va in Cina, mentre importiamo il petrolio da Mosca», spiega Dondovdorj Bakhmunt, già consigliere economico del premier (e oggi del sindaco della capitale). «Questo significa che siamo completamente dipendenti dai due Stati confinanti. E la “politica del terzo vicino”, che allude alla necessità di creare relazioni alternative, deve essere sempre prudente». Secondo Bakmunth la scelta più strategica sarebbe quella di sviluppare un’industria interna «che ci permetta di lavorare qui i prodotti da esportare, dal settore minerario a quello alimentare, in particolare la carne, fino al cashmere».
Tuttavia, anche nel caso della pregiata lana che comincia a essere valorizzata come un’eccellenza mongola, «bisogna puntare su una produzione limitata e di qualità», visto che le capre da cui viene ricavata, depauperando il terreno, aggravano un’altra delle emergenze del Paese: la desertificazione. Che va di pari passo con la necessità di una transizione ecologica, visto che l’uso massiccio del carbone come fonte energetica ha fatto di Ulan Bator una delle capitali più inquinate al mondo. Le opportunità di crescita per il Paese dal cielo blu, insomma, non mancano, ma la formula per uno sviluppo sostenibile e democratico è ancora in corso di elaborazione.