Iraq, così diamo un calcio agli abusi

Iraq, così diamo un calcio agli abusi

Dieci anni fa l’Isis invase le terre degli yazidi: gli uomini furono massacrati, le donne vendute come schiave. Oggi molte di loro curano i traumi sui campi da gioco

A Wardiya, piccolo villaggio a sud del monte Sinjar, il fischio dell’arbitro durante i tornei di calcio è diventato un suono familiare. Esattamente dieci anni fa, qui, come in tutta questa regione del Nord dell’Iraq abitata tradizionalmente dalla minoranza degli yazidi, nell’aria si levavano solo grida di terrore, il fragore degli spari e i pianti disperati dei bambini. Era l’agosto del 2014 quando i miliziani fondamentalisti dell’Isis invasero l’area del Sinjar e, nel corso di due settimane, portarono avanti una campagna feroce di sterminio della popolazione, considerata “infedele”.

Circa 400.000 yazidi fuggirono nel vicino Kurdistan iracheno e decine di migliaia si rifugiarono sulle montagne, dove sopravvissero tra la fame e gli stenti. Tutti quelli che non riuscirono a scappare, invece, furono uccisi – l’Onu ha definito poi quell’aggressione “un genocidio” – o fatti prigionieri e sottoposti a violenze, lavoro forzato e riduzione in schiavitù. Le ragazze, in particolare, furono quelle che subirono i traumi peggiori: rapite, vendute al miglior offerente e rese schiave sessuali dei cittadini del califfato.

Per questo il nuovo, bellissimo centro sportivo sorto a Wardiya è dedicato in primo luogo proprio alle donne. Sono centinaia quelle che, dal villaggio e dai dintorni, oggi lo frequentano quotidianamente per allenarsi nei campi da calcio e da pallavolo e, grazie allo sport e alla socializzazione, provare a guarire le ferite della loro anima. L’idea è stata incoraggiata da Nadia Murad, ex schiava dell’Isis diventata attivista per i diritti del suo popolo: un impegno che nel 2018 le è valso il premio Nobel per la pace. Con la ong da lei fondata, Nadia’s Initiative, la giovane in questi anni ha promosso innumerevoli progetti per ridare vita alle comunità devastate da chi, oltre a massacrare la popolazione, aveva sistematicamente distrutto le infrastrutture di base dei villaggi per impedire ai residenti di tornare.

Dopo la cacciata dei fondamentalisti, nel 2017, gli interventi di ricostruzione da parte del governo sono stati lenti, quando non del tutto assenti, anche a causa dei conflitti sulla giurisdizione di quest’area tra lo Stato centrale e le autorità regionali curde. Quando Nadia’s Initiative si rivolse ai sopravvissuti di Wardiya per concordare le priorità, gli abitanti chiesero la riedificazione della scuola – poi riaperta nel 2019 – e del centro di assistenza sanitaria, rimesso in funzione giusto in tempo per affrontare la pandemia di Covid-19. Grazie alla collaborazione con il gestore dell’elettricità di Sinjar, intanto, in paese è stato possibile riaccendere le luci e fare ripartire le attività produttive.

Nadia Murad, tuttavia, sapeva bene per esperienza che il suo popolo non si sarebbe rimesso in piedi finché non si fosse occupato di curare i traumi delle ragazze, sistematicamente violate e costrette a partorire bambini “musulmani” con l’intento di distruggere la comunità dall’interno (si stima che oltre 6.000 tra donne e bambini siano stati rapiti dai tagliagole del califfato, e ben 2.800 risultano tuttora dispersi). Così, quando qualcuno a Wardiya ha cominciato a parlare di realizzare un campo da calcio per togliere i ragazzini dalla strada, la ong dell’attivista ha rilanciato: perché non costruire un grande complesso sportivo dedicato in primo luogo alle donne, in particolare le più giovani?

È nato così il Women’s Sports Complex, una moderna struttura – la prima nella regione – che comprende un campo da calcio e uno da pallavolo, un parchetto per i bambini con scivoli, altalene e dondoli, uno spazio al chiuso con tavoli da ping pong e una caffetteria. Qui, madri e figlie hanno la possibilità di avvicinarsi allo sport per coltivare il proprio talento e la loro autostima, e godere di uno spazio di serenità e condivisione.

«Ogni volta che mi alleno cerco di dimenticare la sensazione di essere sola», racconta Najwa, costretta a fuggire quando aveva solo sei anni e rientrata di recente con la sua famiglia nella regione. Grazie all’atletica, Najwa ha recuperato la fiducia necessaria per brillare in pista, ma anche in classe, e oggi incoraggia le sue coetanee a mettersi alla prova, a fare squadra e coltivare i propri sogni. Il centro sportivo è diventato rapidamente un punto di riferimento per programmi volti all’emancipazione femminile a tuttotondo: Bahia, che sul mento esibisce il minuscolo tatuaggio circolare tipico della tradizione, ha partecipato a un’iniziativa di formazione alla leadership, mentre Ghalia sembra ugualmente soddisfatta tanto della sua divisa da calciatrice quanto del corso di alfabetizzazione seguito insieme ad altre venti donne: «È stato molto utile, abbiamo imparato a leggere e a scrivere», racconta con un sorriso che dice quanto rare possano essere alcune opportunità in questo angolo di Medio Oriente.

Nonostante le sofferenze patite, le donne yazide sono spesso trascurate negli interventi di riqualificazione del territorio e le loro condizioni restano critiche: secondo una ricerca di Nadia’s Initative il 95% delle intervistate ha riferito casi di matrimoni precoci nelle proprie comunità, mentre il 93% delle abitanti delle aree rurali non ha accesso a cure psicologiche adeguate. All’interno del Women’s Sports Complex, però, le ragazze oggi possono incontrarsi senza condizionamenti, condividere esperienze e fare nuove conoscenze. Per dare un calcio agli abusi e andare in rete con i propri sogni.