È stata la prima missione e quella del primo martire, il beato Giovanni Mazzucconi. Ancora oggi la Papua Nuova Guinea è profondamente radicata nel Dna dell’Istituto, che ora è chiamato a confrontarsi con nuove sfide, spesso condivise con le Missionarie dell’Immacolata. Ascoltalo anche in podcast
La statua del beato Giovanni Mazzucconi di fronte alla piccola cattedrale di Alotau è uno dei tanti segni che confermano il legame privilegiato che unisce il Pime alla Papua Nuova Guinea. Primo martire della prima missione che fu affidata all’Istituto, Mazzucconi venne ucciso sull’isola di Woodlark nel 1855. La sua memoria non solo è ancora viva, ma è testimoniata dalla presenza di 13 missionari del Pime che – a quasi 170 anni di distanza – danno continuità a una missione che venne rilanciata nel 1981 sull’isola di Goodenough e portata avanti oggi in 7 diverse località. Accanto a loro – e con una presenza di ben trenta suore – ci sono le missionarie dell’Immacolata, impegnate in vari campi e in diverse diocesi, sia nella pastorale che in campo educativo e sanitario.
«Ci sono ancora tante comunità inesplorate e un grande lavoro di prima evangelizzazione», dice padre Stefano Mosca, superiore regionale in visita alla missione di Watuluma, la più “strutturata” di tutte: parrocchia con due missionari, padre Prakasa Rao Nallamelli, indiano, e padre Peter Saw del Myanmar, ospedale e scuole gestiti da due comunità di missionarie dell’Immacolata, e un istituto tecnico diretto da fratel Roberto Valenti. Eppure anche qui la cifra più caratteristica ancora oggi è quella dell’isolamento. E non solo perché l’isola di Goodenough – che non è neppure tra le più remote – si raggiunge solo concon quasi 24 ore di barca, tra onde poco rassicuranti, ma anche perché non esistono altre comunicazioni: niente corrente, niente telefoni, Internet satellitare solo nella scuola superiore delle missionarie. «Alcuni villaggi – conferma padre Peter, 37 anni, cappellano degli studenti – si raggiungono con sei ore di cammino. La gente è inevitabilmente un po’ chiusa e a volte non è facile entrare nella loro cultura e nelle loro tradizioni. Ma se riesci ad adattarti ti accolgono molto bene. E poi il Pime ha fatto davvero un grande lavoro qui. È conosciuto e rispettato».
Ad Alotau, sull’isola principale dove il Pime mantiene la casa regionale, vivono attualmente fratel Giuseppe Bertoli e l’italoamericano padre Francesco Raco. Con l’eccezione di padre Giorgio Licini, da sei anni segretario generale della Conferenza episcopale, tutte le altre presenze testimoniano della progressiva internazionalizzazione dell’Istituto, che ha come rappresentante di area il primo missionario africano del Pime: padre Gaudêncio Pereira, 48 anni, della Guinea-Bissau. «Sono stato ispirato da padre Leopoldo Pastori e dalla storia dell’Istituto. E sin dall’inizio ho desiderato essere inviato in Papua Nuova Guinea», ci dice nella sua parrocchia di Tokarara, a Port Moresby.
Come tutti, anche lui è passato per Watuluma, tappa obbligata per chi è destinato in questo Paese, per poi confrontarsi con altre due realtà molto diverse: quella di Madang e Kayan, sulla costa orientale, e attualmente con le dinamiche urbane di una grande città spesso segnata dalla violenza di criminali e bande. L’ingresso della casa parrocchiale porta ancora i segni di uno scasso. «Da quando sono arrivato qui, non sono ancora venuti a trovarmi. Sono io che vado a trovare loro!», scherza. In effetti, tutt’intorno alla parrocchia ci sono diversi insediamenti informali e illegali, gente che viene dalle zone rurali o da altre isole, che spesso vive di espedienti e, specialmente i giovani, di piccola criminalità. Padre Gaudêncio fa visita a tutti, crea legami. E cerca di prevenire così anche brutte sorprese.
Sono dinamiche simili, ma su scala più ridotta, quelle che vive a Madang padre Silvestre Saladaga, filippino di 57 anni, conosciuto da tutti come padre Dong. Dopo 15 anni a Tokarara, lo scorso ottobre ha preso in mano la parrocchia di Our Lady of Perpetual Help, dove sono presenti anche quattro dinamiche Missionarie della Carità, tre indiane e una keniana. «È una comunità molto viva, piena di bambini e giovani. Ho deciso di ricominciare da loro. Sono il mio dono», ci dice mentre intorno c’è un gran vociare di ragazzini che giocano. È una bella sfida, non priva di difficoltà: «Vorrei offrire loro stimoli e opportunità di crescita. Purtroppo molti sentono di non avere un futuro, vivono nella precarietà e spesso nella violenza». Per questo padre Dong vorrebbe creare dei meccanismi di mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti.
È una sfida cruciale anche in contesti più rurali e di foresta come quello di Kayan, a sei ore di distanza, dove è presente l’indiano padre Bala Raju Mareboiana, classe 1987, o sull’isola di Ferguson, dove padre Dominic Hashda del Bangladesh, 32 anni, si occupa della parrocchia intitolata al beato Mazzucconi. Altri due missionari indiani sono arrivati nelle scorse settimane per consolidare una presenza che anche per i padri del Pime è fatta soprattutto di vicinanza alla gente e di accompagnamento nella fede per radicarla più profondamente, ma anche di sostegno alle tante persone in difficoltà e in particolare alle famiglie.