L’atto educativo è un atto eucaristico. Perché su quelle cattedre, come sull’altare, passa una vita, in corpo e sangue, continuamente offerta, onda lunga del movimento eterno del Padre che genera il Figlio e nello Spirito Santo lo dona a noi: così ci genera continuamente come sui figli.
«Molto ha esperito l’uomo.
Molti celesti nominato,
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l’un l’altro»
Friedrich Hölderlin
Il tempo è tempio e ciò che è domestico è monastico, avevo scritto recentemente. Ora mi permetto di aggiungere una terza e ultima considerazione che, con le prime due, fa sintesi della mia intera vita: l’educazione è orazione. Sento che in questo modo tocco o sono toccato dall’«amor che move il sole e l’altre stelle».
Scrivo perché tutto quello che ho fatto o anche solo pensato di buono, lo devo a qualcun altro. In questo senso «noi siamo un colloquio», mai soli. Anche il nostro respiro, silente, è già da sempre un colloquio con noi stessi, con i nostri cari vivi o morti, con l’anima del mondo, con Dio. Niente di intimistico, animistico o panteistico. Il colloquio a cui alludo suppone volti, figure, colori, sangue, acqua, vento, terra, carne, mani, sogni, anime, parole, lacrime. E tanto altro ancora!
L’educazione di cui vorrei parlarvi, sbuca dalle nostre scuolette in Cambogia. Che stanno in piedi solo per quel manipolo di insegnanti che le animano! Un giorno, in mezzo a loro, mi sorprese l’intuizione del rapporto fra cattedra e altare. Perché sono entrambi tavoli! Sui primi gli insegnanti insegnano, sui secondi i preti celebrano! Ho cominciato a dire ai miei insegnanti che quel sacrificio quotidiano sull’altare, in cappelle non-tanto-piene di fedeli, le mie!, è del tutto simile al loro sacrificio quotidiano sulla cattedra, in aule tanto-piene di studenti, le loro!
Nel vederli all’opera, ho percepito che quello che io celebro sull’altare, loro lo vivono sulla cattedra. Entrano in aula come io entro in chiesa. Li vedo insegnare come se stessero celebrando l’eucarestia: perché sul quel tavolo mettono null’altro che il proprio corpo e il proprio sangue. Tutti i santi giorni. Come Cristo sull’altare delle nostre chiese; loro, sulle cattedre delle nostre scuole. Niente di meno. Così ho capito che i nostri corpi, il nostro sangue, i nostri cuori pieni di battiti, vengono prima di competenze e strategie. L’atto educativo è un atto eucaristico. Perché su quelle cattedre, come sull’altare, passa una vita, in corpo e sangue, continuamente offerta, onda lunga del movimento eterno del Padre che genera il Figlio e nello Spirito Santo lo dona a noi: così ci genera continuamente come sui figli. Che meraviglia quella scuola dove insegnare è generare!
Ora che mi trovo in un monastero riconosco che l’istituzione civile che più assomiglia a quella monastica è la scuola. Monastero e scuola hanno orari, hanno campane, hanno gerarchie, hanno biblioteche, hanno lezioni, hanno riti e uniformi (almeno in Cambogia!), cercano il vero, il buono, il bello. Non è un caso che in Cambogia le scuole primarie sorgano presso i monasteri e che un tempo i monaci erano gli unici in grado di insegnare. Tutto questo, insieme al resto, mi dice che educazione e orazione sono connessi.
Ebbene, la parola “orazione” deriva da “orare” che significa “parlare, disputare e pregare”. L’educazione può dirsi completa (non lo sarà mai) se noi e i nostri ragazzi impariamo a parlare, disputare, pregare. Cioè a vivere un perdurante colloquio con noi stessi, con gli altri, con Dio. Niente di meno! Mi si dirà che in una scuola laica questo non è possibile. Ci risiamo con il visconte dimezzato! Calvino, intervistato sul visconte, disse che scrisse perché l’idea di un uomo fatto di due metà poteva essere significativa: «tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».[1] Come un colloquio a metà, una relazione a metà, un mondo a metà … mentre invece l’educazione come orazione ambisce all’intero. A portare al cospetto di se stessi, degli altri, di Dio in un perdurante colloquio fra tutti e tre. Basta con insegnanti dimezzati e scuole a metà. L’educazione altro non è che un’introduzione alla realtà tutta intera!
Scrive Heidegger a commento dei versi di Hölderlin che «l’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio; ma questo accade autenticamente solo nel colloquio. […] Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l’un l’altro. […] Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci».[2] Poco prima, parlava del linguaggio come «di un bene, in un senso più originario».
Accosto queste parole alla preoccupazione che fu di don Milani, di dare ai suoi ragazzi quante più parole possibili, e «il dominio sulla parola», perché – continuava – «chiamo uomo chi è padrone della sua lingua».[3] Solo così i suoi studenti avrebbero raggiunto quella maturità e padronanza di sé che viene dalla parola. Perché – chiosa ancora Heidegger – «Solo dov’è il linguaggio vi è mondo».
Da ultimo, Benedetto XVI nel suo discorso a Parigi il 12 settembre 2008, che ascoltai mentre mi trovavo in Cambogia alle prese con la prima scuola. Mi incoraggiò quando disse che «nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse».[4] Con escatologia si intende il desiderio spinto al massimo, cioè desiderio di Dio, e con grammatica si intende l’arte di scrivere e parlare. La scuola dovrebbe saper suscitare ed educare il desiderio dei ragazzi (fino a Dio per chi vuole!). Poi aiutarli a metterlo per iscritto e a farne un’orazione, un colloquio dove «ascoltarci l’un l’altro». Penso inoltre che ogni scrittura sia sempre una ri-scrittura: della nostra «memoria come possibilità dell’avvenire».[5] Che si sprigiona dalla continua orazione con se stessi, con gli altri, con Dio, quasi fosse la cosa più naturale del mondo, ma che pian piano trasforma la nostra storia in un Destino. E la nostra bio-grafia in una più intima teo-logia. La foto sopra, invece, ritrae alcuni dei nostri insegnanti il giorno che hanno ricevuto il diploma di laurea. Buona Pasqua! Ciao!
[1] In un’intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983.
[2] M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, 47.
[3] Don L. Milani, in una lettera al Il Giornale del Mattino, pubblicata il 20 maggio 1956.
[4] J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Milano 1988, 1-8.
[5] M. Recalcati, Convertire la pulsione? Sul processo di soggettivazione nell’esperienza dell’analisi, Trento 2021, 26.