I morti del Ponte Morandi di Genova meritano non solo un autentico Stato di diritto o risarcimenti, alla fine sempre insufficenti. Quei morti meritano ed esigono la nostra conversione, e una conseguente mistica del lavoro
«Altro ora nell’impazienza di vederti
mi preme sapere, mio Dio:
quanto del nostro male ti sia imputabile,
del male che anche tu paghi (…)
pure per te inevitabile» D. M. Turoldo
Nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi, accanto alla preghiera per le 43 vittime e per le loro famiglie, ho letto avidamente i commenti scritti sulla tragedia alla ricerca di un perché, di un ‘prima’, ma anche di un ‘dopo’. Non è crollato solo un ponte ma l’uomo, l’umano tutto intero, il suo ingegno, il suo talento, quella logica con la quale da sempre cerca di trasformare la terra in un luogo ospitale, sicuro. Chi però vive nella fede di Gesù, in circostanze come questa deve mettere in conto anche un altro crollo perché ogni cedimento dell’umano è sempre anche un cedimento del divino, di Dio. Di quel Dio spesso pregato con le parole di Gesù, forse invocato da alcune delle vittime all’inizio di quel viaggio, ma che poi non ha provveduto a salvarli. Se da una parte ci rivolgiamo a Lui per avere cura e protezione, dall’altra Egli spesso si sottrae e lascia prevalere il caso. Chissà quanti hanno attraversato quel ponte un’ora prima o che nel sopraggiungere, si sono fermati in tempo prima di precipitare nel baratro. E quanti invece in quel tratto, in quel momento, in quell’istante, hanno trovato la fine.
Ho seguito i notiziari che aggiornavano sulle operazioni di soccorso, sul crescente numero di morti, ma che subito dopo, maldestramente e in obbedienza al sistema, davano conto delle quotazioni in ribasso del titolo Atlantia, holding di “Autostrade per l’Italia”, quotata in borsa. Costi umani, costi finanziari, speculazioni dell’ultimo minuto nel tentativo, questa volta, di cadere in piedi… e non nella voragine spalancatasi dopo il cedimento del ponte.
E poi lo sdegno, le accuse reciproche, la vergogna per un simile disastro e la promessa di risarcimenti, affrettati dal senso di colpa o dalla paura di perdere il resto del business. Sinceramente grati per l’immenso dispiegamento di forze in soccorso alle vittime, abbiamo dovuto ascoltare le battute dei politici con le loro soluzioni rapide da campagna elettorale. Si ha sempre l’impressione del teatrino di Paese. Intervenire sul sistema-Italia è però molto più complesso. Quanti morti ancora… per cambiare le cose, dove spesso le «incompetenze si strutturano e agiscono come sistema» (M. Fiasco su Avvenire), e si è soliti giustificare le negligenze della base con il «feticcio della responsabilità di vertice». Anche i vertici però sono spesso incapaci di motivare i loro subalterni alla fatica quotidiana del proprio dovere e lasciano che il conformismo diventi più potente di ogni altro ideale di popolo, di patria, di cielo. Basta un caffè e un gol di CR7 per voltare pagina.
Crollo di un ponte, ma anche crollo dell’umano che si scopre alla fine padrone di niente. Per alcuni il disastro è un segno dei tempi, metafora dei legami che crollano sotto i carichi pesanti della vita di ogni giorno. Crollano gli amori, fanno vittime. La violenza fisica e verbale dilaga e genera una paura collettiva. Sentiamo che non solo le nostre strade ma anche le nostre case non sono più luoghi sicuri. Non sono più luoghi sacri.
In sciagure come queste scatta la retorica del nuovo inizio, della voglia di riscatto, del popolo forte capace di rinascere dalle macerie. Rimane però un senso di vuoto. E Dio appare indifferente, a tratti capriccioso. Dio del contrappasso, Dio che ci mette alla prova. Che a volte benedice i nostri viaggi e a volte lascia che si trasformino in trappole di morte. «Dovremmo dunque negarti, Dio / dei tumori», si chiede S. Quasimodo in una sua lirica stupenda.
Non bastano i rapporti di causa ed effetto o le semplici leggi fisiche a spiegare tutto quanto di bello e di brutto ci accade così come accertare responsabilità umane o emettere legittimi verdetti non ci affrancherà da disastri futuri. Rimane per intero il bisogno di capire se la morte, il dolore, lo sdegno di questi giorni possono indicarci qualche passo in avanti. Senza ingenuità o puerili pentimenti chiediamo a Dio di riprendere il cammino e di indicarci quel punto oltre il ponte, «ove il cielo s’inarca / e tocca il mare» (M. Luzi).
Dalla fede e da quel che succede ricavo questa verità. Tutto ciò che Dio crea è al contempo lasciato libero di fare a meno di Lui. La creazione e tutto ciò che in essa si muove, vive, respira, è libero. La libertà è la verità della creazione. Dio non crea prigionieri. Quello che da Lui proviene rimane libero di voltargli la faccia. Libero è il vento, il terremoto. Libera è la montagna e l’uomo che la scala. È libero ogni essere di muoversi, agire, amare e uccidere, secondo la sua misura, la sua fisica e metafisica. Tutto è mistero di libertà, in ciascuno secondo la sua natura. Dio crea nella libertà e per libertà. Libero è ogni Suo figlio, di stare o di andarsene, libero è il mare di agitarsi o calmarsi, secondo la sua natura. Dio accetta dunque di patire questa libertà, si fa meno onnipotente dell’uomo – scrive Turoldo – «a causa del pauroso dono» e delle sue conseguenze. Per questo, continua il poeta, «mi preme sapere, mio Dio: quanto del nostro male ti sia imputabile, del male che anche tu paghi (…) pure per te inevitabile».
Una seconda ispirazione viene dall’Evangelo di Luca (13,3-5), laddove Gesù di fronte a «quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise», non attribuisce la tragedia al loro peccato e precisa, «credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?». «No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Quei morti, tutti i morti, meritano non solo un autentico Stato di diritto o risarcimenti, alla fine sempre insufficienti. Quei morti meritano ed esigono la nostra conversione, e una conseguente mistica del lavoro quotidiano, della cura per ogni cosa. Perché – scrive Teilhard de Chardin – «Dio non è lontano da noi (…) ma ci aspetta a ogni istante nell’azione, nell’opera del momento. In qualche maniera, è sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero. È portando sino all’ultima perfezione naturale il tratto, il colpo, il punto al quale mi sto dedicando, che coglierò la Meta ultima cui tende il mio volere profondo». Qui c’è qualcosa che eccede il dovere, il visibile, il numerico, e spinge ben oltre il ponte.
E da ultimo, raccolgo da questo crollo un potente invito alla comunione, all’essere come un solo corpo. Con Dio, tra di noi. Crollano i ponti, si innalzano mura, eppure si sente ancora un acuto e profondo bisogno di riunirsi, stringersi, stare e pregare insieme. Di aprirsi, spalancare il cuore e farne grembo per ogni dolore.