A Lago Agrio, nel Nord del Paese, è possibile toccare con mano i danni causati da quarant’anni di estrazione petrolifera senza regole. Crimini per cui ora il colosso Texaco-Chevron è stato condannato
L’oleodotto è un serpentone mostruoso chiazzato di ruggine che si infila dentro e fuori la terra per decine di chilometri, a due passi dalle capanne degli indigeni e dei coloni. Sembra vano inseguirlo mentre la strada scorre veloce sotto la jeep. «Qui la gente ci stende sopra i panni, perché è sempre caldo», dice Donald mentre si infila i guanti di lattice. Ci guida, un bivio dopo l’altro, fuori dalla cittadina di Lago Agrio, fino a una zona recintata in mezzo alla foresta dove svettano le cisterne di petrolio. Siamo nella regione Sucumbios nel Nord-est dell’Ecuador, piena Amazzonia, zona di “frontiera” per motivi che vanno dai rifugiati colombiani del vicino confine alle questioni ambientali, passando per le lotte sindacali dei campesinos.
Donald scende dall’auto e ci porta verso la foresta, a vedere la più vecchia trivella della multinazionale statunitense Texaco. Installata nel 1975, più di quarant’anni dopo è ancora operativa, anche se oggi in gestione pubblica a Petroecuador. «La compagnia doveva smaltire la terra dello scavo, le acque di formazione, il petrolio di prova e i residui chimici della manutenzione». L’uomo si addentra pochi metri in quella che sembra una radura di terriccio scuro, ma il suo fisico robusto vacilla pericolosamente sulla terra che si muove. Raccoglie un bastone e lo pianta nel terreno con forza. «Questa è quella che noi chiamiamo una piscina tossica», dice mentre il bastone penetra nel petrolio per oltre due metri di profondità. Non vediamo alcuna separazione tra la “piscina” e la foresta circostante. Donald si china fino a terra e poi torna verso di noi tenendo fra le mani una poltiglia nera e lucente. «Questo è un petrolio abbastanza duro perché è qui da decenni, e contiene più di duemila componenti tossiche». È a diretto contatto con la terra, ovviamente avvelena le falde e le acque che vanno nei fiumi. «Le comunità che abitano in questa zona consumano solo l’acqua dei pozzi e dei fiumi, non ricevono acqua potabile in casa». Ma la fossa è mortifera anche per le bestie. «Sono state ritrovate negli anni circa 25.000 teste di animali. Perché le teste? Perché gli animali morivano a contatto con la piscina, e gli abitanti ignari ne approfittavano per vendere le carcasse al mercato della carne».
Donald Moncayo ha 45 anni ed è un attivista della Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (Udapt), che riunisce le vittime del business petrolifero. Sulla maglia bianca sgualcita risaltano le parole “salvemos el planeta”; il volto rotondo, dai lineamenti indigeni, è incorniciato da capelli neri proprio come il petrolio. Ci ha raggiunti per portarci in quello che ormai lui chiama «Toxic tour, perché porta a conoscere i crimini tossici compiuti su questa terra e la natura meravigliosa che la costituisce, e che bisognerebbe difendere come fonte di vita e di futuro». Un’esperienza stimolata dalle prime inchieste giornalistiche e giudiziarie sulle operazioni estrattive del colosso Texaco, poi acquisito da Chevron nel 2001. «Diversi giornalisti statunitensi volevano venire a vedere, e io li portavo nei posti che bazzicavo fin da bambino». Dal 1964 al 1990 sono stati scavati più di 350 pozzi di petrolio, e sono state individuate circa 900 piscine tossiche come questa. «Quando è scaduto il contratto dell’azienda nel 1990, come comitati abbiamo presentato domanda di risarcimento danni. È da allora che ha cominciato a emergere una verità allucinante». La multinazionale nel ’93 firmò un patto col governo per la bonifica di circa 160 fosse, completandone meno della metà, «prendendo terra pulita da altri siti e rovesciandola a coprire il petrolio. Questa è stata la loro bonifica».
Di petrolio muore l’Amazzonia con le sue popolazioni autoctone. Non è un modo di dire. Sebbene Lago Agrio – una zona un secolo fa talmente selvaggia e impenetrabile da essere quasi disabitata – sia nata e cresciuta grazie al business petrolifero, dopo le devastazioni ambientali degli ultimi decenni il bilancio sociale è devastante: si parla di 30 mila afectados, ed è difficilissimo calcolare i decessi. «Nei 480 mila ettari in cui è venuta ad operare la Texaco esistevano popoli ancestrali di etnia siona, cofan, secoia, siocopai e altre. Due su sei sono già scomparse, e guarda caso proprio nei decenni di maggiore attività estrattiva. In molti sono stati cacciati dalle loro terre native». Anche la percentuale di vittime di cancro è fortemente salita nelle aree attigue ai pozzi petroliferi.
Il movimento degli afectados è partito in seguito ad una clamorosa moria di animali, e grazie a quella forte presenza cattolica in queste comunità che era la teologia della liberazione. «La Chiesa era uno stimolo per la gente, molte persone erano coinvolte. Ricordo un tal padre Jesus che per primo portò i problemi della gente nella Messa, dicendo: “Che succede? Parliamone”. Chiese quante donne avevano avuto aborti spontanei, e le mani cominciarono ad alzarsi. Chi tre, chi due… mia madre ne ha avuti due, a causa dell’acqua del fiume».
Mentre ci spostiamo a visitare un’altra piscina, molto più nascosta nel cuore della foresta, Donald rievoca i ricordi della sua infanzia. «Pur abitando in riva a un fiume, da bambino non ho imparato a nuotare: l’acqua era salata e si vedeva il petrolio scorrere. Per lavarci, nostro padre doveva prima cospargerci di sapone, in modo che a contatto con l’acqua respingessimo il liquido oleoso, e si creasse una chiazza limpida dove fare il bagno». Prima di uscire, stessa procedura, per evitare la contaminazione. Eppure la maggior parte della popolazione ignorava la vera gravità dell’intossicazione ambientale, per anni ha utilizzato quell’acqua per lavare verdura e frutta o preparare il riso. «Noi bambini correvamo qua e là a giocare e mai nessuno ci metteva in guardia dal petrolio che ci rimaneva sotto i piedi».
Percorriamo un’ampia zona dove sono visibili oleodotti e gasdotti di medie dimensioni. A lato strada, in corrispondenza dei ponti sul fiume, più di una volta ci si presenta la scena di una chiazza di petrolio malamente contenuta da una serie di galleggianti, con i nastri gialli di peligro, “pericolo”, tutto attorno. Una vista che spazza via qualunque dubbio che questi racconti attingano all’immaginazione di un bambino. «Una volta che le piscine di petrolio vicino ai pozzi raggiungevano un livello limite, i liquami tossici in eccesso entravano in un tubo scolmatore che li scaricava direttamente nel fiume più vicino. Appena possibile la compagnia veniva sul posto, dava fuoco alla piscina e lasciava bruciare un po’ di liquido per alcuni giorni. Oppure i primi tempi ne caricava qualche camion e andava a spargerlo sulla strada in costruzione, dove una pressa lo mescolava alla terra e poi lo fissava con l’asfalto».
«Texaco si è enormemente arricchita con queste operazioni», spiega Donald con la sua pacata ma ferma indignazione. La legge impone un trattamento preciso dei residui di estrazione, e il trasferimento dei fanghi e delle acque di formazione in siti attrezzati, per cui «immaginate quanto può aver risparmiato l’azienda nell’evitare tutto questo, compresi i costi di trasporto». Si stima che le estrazioni di Texaco abbiano contaminato in quarant’anni circa 60 miliardi di litri d’acqua in questa regione dell’Amazzonia. «Il costo di purificazione di un litro d’acqua è di 3 dollari. Moltiplicateli per 60 miliardi e avrete il guadagno illecito dell’azienda».
Nel raccontarci i lunghi anni di lotte, alleanze, processi e manifestazioni, Donald vuole rimarcare che per il popolo amazzonico «queste cose sono indimenticabili. Non puoi passarci sopra, sapendo che c’è un responsabile, uno che sta lì tranquillo e gira il mondo corrompendo, comprando coscienze, comprando la stampa, credendosi un signore e non avendo idea del danno che ha provocato», dice guardandoti fisso negli occhi. «Per loro il vivir bien è avere denaro, per noi è il contrario: acqua limpida, suolo pulito, aria pura».
L’ultima tappa del tour è uno dei grandi bruciatori di gas, i piloni sui quali giorno e notte arde una fiamma alta diversi metri. È nel profondo della foresta, e per arrivarci camminiamo a lungo in un canale fangoso fitto di vegetazione. Il gas fuoriesce con l’estrazione del petrolio, viene separato e bruciato in aria, ma la separazione è grossolana e continuamente bruciano anche residui di petrolio. «Nei primi decenni Texaco ha costruito bruciatori obsoleti che uscivano direttamente dal terreno, a terra, pericolosissimi. Le persone, i bambini soprattutto che venivano mandati a far legna, spesso venivano trovati svenuti nelle vicinanze, storditi dal gas».
Nel 2018 la Corte Costituzionale ecuadoriana ha rigettato l’ultimo ricorso di Chevron confermando la condanna a risarcire con 9 miliardi di dollari i danni compiuti nell’area e ordinando il ripristino ambientale e il compenso alle popolazioni. Secondo Paolo Fajardo, avvocato degli afectados, una sentenza del genere rappresenta «una minaccia al sistema di impunità corporativa delle multinazionali del petrolio nei Paesi del Terzo mondo»: costituisce insomma un precedente importante.
«La rabbia più grande è che le nostre comunità indigene, dal colonialismo a oggi, hanno continuato a subire ogni genere di violenze, dirette e indirette», conclude Donald Moncayo, che non nasconde di essere stato minacciato più volte da militari e polizia. «Nel 2008 ho subìto un’indagine pretestuosa con l’accusa di sabotaggio e terrorismo. Ma è troppo importante fare conoscere quello che succede qui. Per noi, per chi abbiamo perso, per i nostri figli. Bisogna sempre ricordare che quanto accade in Amazzonia si ripercuote sul Pianeta intero».