Sospesa per sei mesi dalle sue funzioni, la presidente paga le contraddizioni del modello sociale promosso dal predecessore Lula, che ha lasciato dietro di sé prezzi altissimi e servizi scadenti
«Temer golpista! Temer machista! Temer traditore. Temer corrotto!», urlano circa mille donne, molte ragazzine, che occupano l’Avenida Paulista, il cuore economico e finanziario di San Paolo del Brasile. È domenica 15 maggio e si stenta a credere che la parola golpe, ovvero colpo di Stato, sia tornata d’attualità in Brasile, Paese che negli ultimi 13 anni, con il Pt, il partito dei lavoratori di Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff, sembrava avere trovato una formula vincente per ridurre le enormi differenze sociali tra la classe dominante bianca e le decine di milioni di poveri, in gran parte neri e pardos, come vengono chiamati a queste latitudini i meticci.
Le ragazze che gridano contro il golpe stringono nelle mani cartelli con il profilo di una giovane Dilma, la prima presidente donna mai eletta nel Paese del samba, nel 2010. Sono passati solo sei anni, ma sembrano secoli. Già, perché se all’epoca l’ex guerrigliera – torturata dalla dittatura che ha governato con pugno di ferro il Brasile dal 1964 al 1985 – vinceva facilmente le presidenziali contro l’oriundo calabrese José Serra e Lula lasciava il palazzo di Planalto con un gradimento popolare record dell’85%, oggi l’ex sindacalista rischia la galera, accusato dalla Mani Pulite verde-oro di avere guidato lo schema delle tangenti che ha quasi fatto fallire la compagnia statale del petrolio Petrobras, mentre la sua delfina, Dilma per l’appunto, dall’11 maggio scorso è stata «messa in stato d’accusa» dal “suo” Parlamento, ed estromessa per sei mesi dal potere con una procedura d’ impeachment prevista dalla Costituzione.
Al suo posto – pro tempore, alla guida del Brasile che s’appresta ad ospitare a Rio le prime Olimpiadi sudamericane della storia – è arrivato proprio quel Michel Temer preso di mira dalle donne della Paulista che l’accusano di essere un “golpista” perché, essendo il vice della Rousseff, meglio avrebbe fatto a dimettersi, favorendo nuove elezioni.
«La soluzione migliore dal punto di vista democratico, anche se l’impeachment è costituzionale e quella del colpo di Stato è solo la narrativa di un populismo ormai rimasto senza popolo», spiega a Mondo e Missione il giudice anti-mafia Walter Fanganiello Maierovitch, presidente dell’Istituto Giovanni Falcone ed oggi tra gli analisti giuridici più apprezzati nel Paese del samba.
Temer è un quadro storico del Pmdb, il principale partito brasiliano che dal ritorno della democrazia qui è sempre stato al potere e che, nel marzo scorso, ha “scaricato” Dilma, da cui l’accusa di essere un “traditore”.
La sua prima compagine ministeriale di governo, annunciata lo stesso 11 maggio, poche ore dopo l’uscita di Dilma per 180 giorni, ha fatto discutere perché composta esclusivamente da uomini bianchi – per questo sarebbe “machista” – almeno tre dei quali indagati dalla Mani Pulite brasiliana, da cui lo slogan «Temer corrotto» (ad onore del vero, i ministri indagati di Rousseff erano nove).
Al di là delle manifestazioni di protesta, destinate a continuare per la mobilitazione del maggior sindacato del Paese (la Cut legata al Pt), dell’associazione studentesca Une, dei senza terra e dei senza tetto – Mst e Mtst – finanziati con centinaia di milioni di reais l’anno, è difficile che i supporter di Dilma riescano anche solo ad avvicinare i milioni di brasiliani che, invece, nei mesi scorsi erano scesi nelle piazze per chiedere l’impeachment di Rousseff.
In teoria, tutti i problemi della delfina di Lula derivano dalla bocciatura dei bilanci dello Stato del 2014 da parte della Corte dei Conti brasiliana (Tcu), avvenuta lo scorso ottobre. Un evento rarissimo se si pensa che solo una volta era successo nel passato: era il 1937 e poco dopo Getulio Vargas instaurò con un golpe un regime autoritario, soprannominato Estado Novo.
Alla base della bocciatura del Tcu ci sono quelle che in Brasile hanno ribattezzato le “pedalate fiscali” di Rousseff, ovvero l’aver deciso di prendere in prestito 106 miliardi di reais – l’equivalente di circa 35 miliardi di euro al cambio dell’epoca – da banche statali (Banco do Brasil, Caixa Economica Federal e Bndes) con semplici decreti presidenziali e senza passare per l’approvazione del Parlamento, il tutto per “truccare” il bilancio di fine 2014. Un crimine fiscale che – «se reiterato» – è sanzionabile con la «messa in stato d’accusa» della presidente, come prevede la Costituzione del 1988 all’articolo 85.
Questo almeno sulla carta perché, ad onore del vero, anche Lula da Silva tra 2003 e 2010 e, prima ancora, Fernando Henrique Cardoso, da presidenti avevano “pedalato”, seppure con un centesimo dell’intensità “ciclistica” di Rousseff.
Il principale problema che ha portato all’impeachment di Dilma, tuttavia, è stato di tipo “politico”. Da almeno due anni, infatti, non solo l’ex guerrigliera non aveva più la maggioranza parlamentare per fare le riforme necessarie, ma aveva visto dissolversi l’appoggio tra le fasce più povere della popolazione, tradizionale feudo elettorale del Pt, ma anche le più colpite dall’inflazione, dalla disoccupazione e, soprattutto, sempre più indebitate. Basti pensare che oggi sono oltre 60 milioni i brasiliani con i conti “in rosso”.
A demoralizzare la classe sociale più bassa, inoltre, il fatto di essersi sentita tradita sia dalle promesse elettorali – Rousseff nel 2014 vinse con un programma, poi ha cercato di fare l’esatto contrario – che dai tanti esponenti di spicco del Pt finiti in carcere, per corruzione.
Quella di Dilma è, insomma, un’“agonia” che arriva da lontano. Almeno dal 17 di giugno 2013, quando milioni di brasiliani scesero in piazza all’insegna dello slogan «vem para rua» («scendi in strada») per protestare contro il “caro vita” e servizi pubblici – dai trasporti alla sanità fino all’istruzione – indegni di una potenza come, a prescindere dalle contingenze attuali, è destinato ad essere il Brasile, eterno “Paese del futuro”, non fosse altro per le sue dimensioni e le tante materie prime di cui dispone, dal ferro al petrolio, passando per il polmone verde dell’Amazzonia ad ogni sorta di minerale prezioso. All’epoca Dilma non diede risposte concrete e, anzi, affrontò la questione con la forza della polizia. Inoltre, subito e come se nulla fosse avvenuto, riprese la routine degli appalti pubblici già decisi a tavolino con un solo consorzio partecipante/vincitore, mentre la corruzione – nel 2013 pre-mondiale di calcio, oggi pre-olimpica – continuò senza freni, nonostante i media avessero scritto che «il Gigante» si era «svegliato».
In realtà le istituzioni del governo verde-oro rimasero immobili ma si stava arrabbiando o povo di fronte ad un mondo politico che tutto faceva meno che occuparsi dei bisogni – molte volte fondamentali come fognature, acqua potabile, profilassi contro epidemie ed un’istruzione adeguata – della popolazione.
Anche per questo, dopo l’impeachment di Dilma, non sono scesi in strada milioni a protestare, ma solo poche centinaia di persone, fortemente politicizzate e, sovente, anche pagate.
La formula del “capitalismo produttivo” e del modello d’inclusione sociale, introdotta da Lula nel 2003 e proseguita poi dal 2011 da Dilma, sembrava avere funzionato davvero, al punto da essere presa a modello come una possibile «terza via», progressista, per far crescere in modo democratico e partecipativo il Brasile. Purtroppo, con le Olimpiadi alle porte, si è scoperto che quel modello era tutto fuorché perfetto ed oggi il Brasile vive la sua peggior crisi politico-istituzionale da quando è tornato alla democrazia.
Il discorso con cui Bettino Craxi si difese di fronte al Parlamento italiano dalle accuse di Mani Pulite, oltre 25 anni fa, ammettendo il sistema di finanziamento illegale della politica – «rubano tutti», fu in sintesi la giustificazione – oggi è attualissimo in Brasile, dove l’inchiesta Lava Jato, iniziata nell’aprile 2014, ha scoperchiato una corruzione endemica, che coinvolge tutti gli schieramenti che negli ultimi anni hanno governato il Paese, a cominciare dal Pt di Lula e Dilma.