Missionario del Pime a Macapà padre Luigi Carlini si appresta a lasciare la sua gente: «La grazie più grande? Camminare insieme a tutti, anche con i carcerati. Ma quanta strada ancora per far incontrare la Messa e la vita. Non solo in Brasile…»
Settantacinque anni, 48 dei quali dedicati alla missione in Amapá. Padre Luiz Carlini, missionario italiano del Pime originario di La Spezia, ha compiuto 75 anni il 16 giugno e ha presentato le sue dimissioni per raggiunti limiti di età. Ha scritto al vescovo di Macapá, dom Pedro José Conti, una lettera in cui ringrazia «Dio e questa ex prelatura, ora diocesi di Macapá, per avermi dato l’opportunità di scoprire e crescere, imparare e servire in tante situazioni nel mio cercare di annunciare il Vangelo, in questi 48 anni di presenza, nel cammino della vita e della fede, insieme alla gente».
Ha lasciato il suo ruolo di parroco nella parrocchia di Jesus Bom Samaritano (il nuovo parroco è padre Joseph Kouadio, un missionario del Pime originario della Costa d’Avorio) e si prepara a tornare in Italia per svolgere il suom ministero sacerdotale nella terra d’origine. Padre Luiz ha lavorato alla fondazione delle parrocchie di Porto Grande e Laranjal do Jari, nonché, per 14 anni nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù e altri sei anni in quella di Jesus Bom Samaritano. «Non è poco, sono stati 48 anni di coraggio, testimonianza, dedizione ed – è bene ricordarlo – in maniera speciale accanto ai più piccoli, ai poveri, ai carcerati», ha detto dom Pedro, durante la Messa d’addio, a proposito di quanto realizzato da padre Luiz in questo mezzo secolo di missione.
Qual è il primo ricordo dell’inizio della tua missione?
«Sono arrivato in Brasile con altri tre sacerdoti italiani del Pime. Appena arrivato, ho subito avuto un problema di salute così sono rimasto a San Paolo per un periodo, mentre i miei confratelli venivano qui al nord. Dopo un mese, sono riuscito ad arrivare anch’io con il vescovo José Mauritano. Il mio primo viaggio sul fiume è stato con padre Angelo Bubani: su una canoa di legno abbiamo attraversato il rio Maracá, risalendo quindici cascate. È stato, tra virgolette, il mio battesimo, perché ho avuto la malaria e sono stato ricoverato in ospedale per tre mesi. A novembre, infine, la mia prima missione nell’arcipelago di Bailique, alla foce del Rio delle Amazzoni. Era un posto bellissimo, dormivo nella cappella e di notte, quando tutti erano tornati alle loro case, rimanevo solo ad ascoltare tutti i suoni di Rio, l’acqua e gli animali. Ringrazio molto il Signore per quel periodo, perché in quel silenzio sentivo la presenza di Cristo e durante la notte ripensavo a tutti gli incontri che avevo avuto durante la giornata. Era un luogo di semplicità enorme».
Come è cambiato il suo modo di essere missionario nel corso degli anni?
«Ho iniziato la mia missione facendo tesoro di tutti gli insegnamenti che avevo ricevuto. L’educazione trasforma, offre uno sguardo diverso per affrontare la vita. Ho iniziato la mia missione con i miei confratelli João Gadda, Sandro Gallazzi e Angelo Damaren, eravamo una squadra. Nonosrtante ciascuno avesse i propri impegni pastorali, mantenevamo dei momenti insieme nei quali era bello fare esperienza di vita comunitaria: era un’opportunità per crescere, confrontarci, pregare insieme. A quel tempo io stavo con dom José Maritano nella cattedrale. Ho imparato da lui come essere un missionario, ho imparato che cosa significa realmente fare un “cammino di comunità”; una comunità non è una struttura all’interno della Chiesa, una comunità è la “traduzione” dell’Eucaristia come comunione con Cristo e coni i fratelli. Con dom José ho imparato a pregare ma anche a tirarmi su le maniche per aiutare la gente. Dopo un po’ di tempo il nostro gruppo fu riunito per lavorare in una comunità di base. Sono stati anni pieni di sfide e impegni».
Qual è stata la sfida maggiore?
«Penso sia stata capire che la Parola di Dio ci chiedesse di essere davvero fratelli con questa gente, di vivere in comunione con le persone. C’erano diversi che pensavano che questo impegno nei confronti del popolo fosse “comunismo”, ma non era così. La dimensione politica della missione non era una dimensione di partito, ma una questione umana, di condivisione con gli altri. Questa è stata la più grande sfida all’interno della Chiesa. Fuori dalla Chiesa, ho dovuto fare i conti con i militari negli anni della dittatura».
E quali difficoltà hai riscontrato?
«Ho incontrato diverse difficoltà, come tutti i missionari. Ho sempre avuto problemi di salute, ma non hanno mai ostacolato la mia missione, la mia visione della vita, il mio desiderio di essere un prete e di stare con questo popolo brasiliano. Penso che una delle difficoltà maggiori difficoltà che ho incontrato sia stata la divisione tra noi sacerdoti. È successo molte volte, non solo con me. È un dolore sentire di non camminare insieme alla Chiesa, una divisione che non permette una condivisione più forte. Credo che questo sia un problema non ancora risolto all’interno della Chiesa: la separazione tra Eucaristia e vita quotidiana. Le persone lasciano tutto in chiesa e, quando escono in strada, non usano i criteri del Vangelo. È una sfida mondiale».
Quali sono i segni che Dio ha operato nella sua vita e nella sua missione?
«Il Signore mi ha dato la grazia di sapere camminare insieme alle persone, accanto a loro. Con tutti, anche con chi sta in una prigione. Un giorno, in prigione, un uomo pianse molto con me perché vedeva che ero trattato come un detenuto. Ma io anche lì ho sempre agito nello stesso modo: è la relazione personale che crea lo spazio per mostrare il volto di Dio. Se fossi entrato nelle carceri tra i detenuti in un modo diverso, loro non avrebbero accolto questo spazio di misericordia, questa occasione per la conversione. Quando Gesù diceva: “Fai questo in memoria di me”, non stava solo chiedendo di dire Messa, ma stava chiedendo di portare Messa nella vita, nella vita di tutti i giorni. In questo cammino sono anche cresciuto e cambiato. Cresciuto e cambiato molto».
Che cosa significa per un missionario che ha dedicato tutta la sua vita a una missione e una terra a “partire”?
«Sono venuto in Brasile non per portare la fede, ma per vedere come è vissuta qui. E adesso non me ne sto andando, non sto mollando tutto. Sto facendo un altro cambiamento. Certo che partire mi addolora. Deve fare male, però so che non sono chiamato costruire il mio regno, ma a lavorare per costruire il regno del Padre».