L’elettorato ha respinto gli accordi di pace siglati dal governo con la guerriglia delle Farc. Errori di valutazione, verità parziali e scarsa capacità di prevedere anche l’improbabile hanno costruito questa cocente sconfitta di un processo durato quattro anni
Il sacerdote gesuita Francisco de Roux, che nel conflitto colombiano ha perso una trentina di collaboratori ed amici assassinati in questi anni, ha più volte ricordato che il processo di pace non mette in gioco il futuro del presidente Juan Manuel Santo, né quello della guerriglia delle FARC, ma “la possibilitá di vivere come esseri umani”. Sono parole che oggi prendono forma di fronte al vero e proprio fulmine a ciel sereno del risultato del referenduim di domenica. Il 50,2 dei votanti, con una differenza di 54 mila voti, ha detto “no” agli accordi di pace firmati appena una settimana fa, durante una cerimonia che ha acceso i riflettori di mezzo mondo con la presenza di decine di capi di Stato e di ministri e dello stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Come spiegare un risultato del genere?
Intanto, va detto che ha giocato a favore del “no” la scarsissima affluenza alle urne: appena il 38 per cento degli aventi diritto al voto, meno di 13 milioni di persone che in alcune regioni é scesa al 30 per cento. Pare poi che soprattutto la maggioranza di governo abbia dormito sugli allori della firma dell’accordo di pace, che ha occupato le prime pagine di giornali e televisioni, mentre i sondaggi assegnavano una vittoria del sí con un appoggio amplio, previsto tra il 55 ed il 62 per cento. Una previsione completamente sbagliata.
Contraria era la destra rappresentata dal Centro Democratico, capitanata dall’ex presidente Alvaro Uribe, strenuo oppositore fin dal loro inizio degli accordi di pace e fautore della mano dura, ma il resto dell’arco politico era schierato a favore del “sí”. Pare dunque che questo vantaggio abbia creato la falsa sicurezza che tutto fosse gia fatto. Al punto che, consultati al riguardo, né il presidente Santos né i piú immediati collaboratori avevano preso in considerazione un “piano B” in caso di sconfitta. Si direbbe un errore grave di valutazione. Cosí come è stato un errore grave non predisporre in parallelo a questi quattro anni di negoziati il necessario sforzo pedagogico per presentare ai colombiani i punti neuralgici del processo.
Il rancore nei confronti della guerriglia ha fatto il resto, alimentato da una campagna nella quale Uribe ha sventolato i peggiori timori dei settori sociali (per la verità abbastanza lotani dal conflitto armato) ancorati all’anticomunismo viscerale, presagendo poco meno che l’istituzione dei soviet in caso di vittoria del “sí”. L’altro argomento di peso utilizzato da Uribe è una verità parziale: la sostanziale impunità per i membri delle Farc accusati di crimini di guerra.
In effetti, i negoziati hanno stabilito il ricorso a una giustizia di transizione che prevede pene alternative (collaborazione a progetti sociali o allo sminamento) in caso di ammissione dei fatti imputati, richiesta di perdono e promessa di non ripetere più tali azioni. Solo nel caso in cui l’imputato non ammetta le proprie colpe le condanne possono includere il carcere.
Quello che peró Uribe non ha detto ai suoi seguaci è che lui si è opposto alla perseguibilità, per un elementale criterio di equitá, dei crimini comessi dall’Esercito e dai paramilitari (che sono ancora piú gravi) e che l’applicazione della giustizia ordinaria avrebbe fatto spronfondare il Paese in un’interminabile sequela di processi dalla durata imprevedibile e gestiti da una delle magistrature piú corrotte della regione. L’idea di una giustizia di transizione era dunque un esercizio di realismo politico.
Nel pieno dell’incertezza sul futuro immediato le prime reazioni fanno sperare almeno che l’alternativa non sia la prosecuzione della violenza. Il leader delle FARC, Rodrigo Londoño, ha annunciato la volontá del gruppo di continuare nel cammino di pace e ha assicurato la disponibilitá a usare solo «la parola come arma per la costruzione del futuro».
Il presidente Santos, il maggiore responsabile politico di questo schiaffo, ha invitato tutte le forze politiche a stabilire un patto nazionale per andare avanti anche in questa situazione. Uribe, da parte sua, ha smorzato i toni e ha invitato a ridiscutere alcuni punti degli accordi di pace. Non sará semplice, perché chi potrá mai stabilire quali parti delle quasi 300 pagine del documento finale non sono state accettate?
Come sempre è comunque possible trarre una lezione da questa sconfitta. Intanto in politica non bisogna mai dare niente per scontato ed è sempre prudente prevedere percorsi alternativi per evitare di improvvisare in caso, come questo, di burrasca. La democrazia colombiana può trasformare in un’opportunità la necessità di costruire pezzo per pezzo la complessità di una convivenza pacifica che ha bisogno di percorrere un cammino più lungo del previsto. Anche perché l’alternativa è il caos.