La religiosa cilena suor Nelly León Correa ha vinto il premio Zayed per la fratellanza umana grazie al suo impegno di 25 anni a fianco delle detenute. «Con loro ho condiviso la pandemia in prigione: sono persone ferite, a cui serve un’opportunità»
«Avevo ventun anni quando un giorno, mentre stavo svolgendo il mio tirocinio da insegnante di religione in una scuola elementare, fui testimone di un abuso sessuale da parte di un bidello nei confronti di una bambina di sette anni che era uscita dalla classe per andare in bagno. Fu quell’episodio a farmi capire che volevo dedicare la mia vita a difendere la dignità delle donne più vulnerabili». Suor Nelly León Correa, religiosa cilena della congregazione del Buon Pastore, sa parlare con pacatezza e insieme con una decisione che va dritta al punto. Sarà per gli anni di esperienza – ormai sono 25 – in situazioni spesso estremamente difficili, a fianco delle detenute nelle carceri del Paese: prima a Valparaíso, per sei anni, e poi al Centro penitenziario femminile di Santiago, dove opera ancora oggi.
Proprio dalla prigione, nel piccolo ufficio che le è riservato in quanto assistente pastorale, suor Nelly, che ha da poco ricevuto il Premio Zayed per la Fratellanza umana istituito in occasione dello storico incontro ad Abu Dhabi tra Papa Francesco e il Grande imam di al-Azhar, mi racconta la sua storia in collegamento Zoom. Alle sue spalle la lavagna dove sono appuntati i laboratori e i momenti formativi per le detenute.
Nata 65 anni fa – ultima di otto fratelli – in una famiglia di contadini nel villaggio di Peralillo, nel Cile centrale, Nelly cresce in un contesto di ristrettezze economiche ma ricco di calore e di fede. Rimasta orfana di madre a 17 anni, riesce a finire gli studi e si trasferisce nella capitale per diventare insegnante di religione: per mantenersi, lavora come domestica e poi in una lavanderia. È proprio in questo periodo – siamo nel mezzo della dittatura di Pinochet – che la giovane si rende conto delle violazioni di cui spesso sono vittime le ragazze più povere, e che restano impunite: nessuno denunciò quel bidello, che fu semplicemente, e discretamente, allontanato dalla scuola.
«Fino ad allora non avevo mai pensato di farmi suora», racconta. «Avevo un fidanzato e progettavamo di sposarci e costruire una famiglia. Ma in quel periodo le mie certezze cominciarono a vacillare. Grazie al mio direttore spirituale conobbi la Congregazione del Buon Pastore, che si dedica all’accompagnamento delle donne in situazioni di vulnerabilità, soprattutto di quelle private della libertà. Così iniziai la mia formazione con una comunità religiosa che operava dentro un carcere e, da allora, mi sono innamorata di questa missione». Nel 1983, senza il consenso del padre, Nelly entrò nella Congregazione e undici anni più tardi emise i voti perpetui. Dopo diverse esperienze a fianco delle studentesse più svantaggiate, nel 1999 tornò a occuparsi a tempo pieno delle carcerate: dal 2005 opera a Santiago, dove ha creato tra l’altro la fondazione “Mujer, Levántate” (“Donna, alzati”), che accompagna le detenute nel loro percorso di rinascita e reinserimento nella società.
Chi sono le donne che incontra in carcere?
«Si tratta in maggioranza di persone molto povere, con alle spalle storie di maltrattamenti e abusi, anche in famiglia: vicende che le rendono profondamente vulnerabili, fino ad arrivare a volte a commettere reati. Più del 55% di loro sono finite dietro le sbarre per microtraffico di droga, altre per rapina. Non sono associate a grandi bande, delinquono soprattutto a causa della miseria o in conseguenza della dipendenza da sostanze stupefacenti. Ci sono tante madri, soprattutto giovani: qui abbiamo due padiglioni, che al momento accolgono quindici donne ciascuno, riservati alle detenute incinte o con figli. I bambini nascono e vivono in prigione fino all’età di due anni, dopodiché lo Stato si incarica di cercare i parenti più stretti per fare rientrare i piccoli all’interno del nucleo familiare. Non sempre però è possibile, a causa delle storie complicate di queste mamme, alcune delle quali vengono anche dalla strada».
Lei sostiene che una donna non smette mai di essere madre, anche se è in carcere: che cosa vuol dire?
«Qui la preoccupazione costante è sempre la stessa: “Come staranno i miei figli?”. Per esempio, se distribuiamo prodotti per la cura personale, o regaliamo a una mamma un paio di lenzuola o un set di asciugamani per il suo compleanno, lei non lo userà, ma lo metterà da parte per darlo ai suoi bambini quando verranno a trovarla. Per questo, con la nostra fondazione, facciamo in modo di creare occasioni, la festa di Natale, o la Giornata dei bambini, in cui le madri possano trascorrere del tempo con i loro figli. Non solo. Ci adoperiamo affinché, grazie alla presenza di una delle nostre operatrici, si possano organizzare colloqui in contesti intimi, dove i minori non debbano essere sottoposti a perquisizioni invasive, che li lasciano traumatizzati».
Durante la pandemia di Covid-19, quando non era possibile entrare e uscire dal penitenziario, ha deciso di restare per 18 mesi dietro alle sbarre per non abbandonare le detenute: che cosa ha imparato da quell’esperienza?
«Che sono anch’io una donna fragile come loro, che ha solo avuto una chance di vita diversa. Tutte rischiavamo di ammalarci, ma non me la sono sentita di tornare nella mia comunità sapendo quanto bisogno avessero di qualcuno che di prendesse cura di loro non solo dal punto di vista materiale – che pure era importante- ma anche da quello spirituale: qualcuno che desse loro speranza, che le consolasse nei momenti di maggior dolore, che continuasse a pregare insieme a loro… Tutto questo ha rafforzato ancora di più la mia passione per questa missione».
Come è nata la fondazione “Mujer, Levántate” e di cosa vi occupate?
«Fin dall’inizio del mio impegno nelle carceri mi sono resa conto che la maggior parte delle donne che uscivano di prigione, poi finivano sempre per tornarci. E quando chiedevo loro “perché?” mi rispondevano sempre la stessa cosa: “Fuori non ci aspetta nessuno”… Erano sole, senza qualcuno che le aiutasse a rimettere insieme le proprie vite. Così, insieme a un sacerdote che mi ha sostenuta e a un’équipe che abbiamo creato un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare questo progetto che oggi è basato su tre programmi principali: uno dentro al carcere, uno post penitenziario e uno legato a una casa di accoglienza temporanea per le ex detenute che non possono tornare nelle proprie famiglie a causa di situazioni troppo precarie o critiche. Il cammino in carcere, che si chiama “Costruisco il mio futuro”, inizia già un paio d’anni prima della fine della pena: abbiamo quattro professioniste che seguono una trentina di detenute per dei cicli di laboratori sulle capacità personali e relazionali, psicologiche e spirituali. Le donne possono riflettere sulla loro rabbia e su come controllarla, lavorare sulla violenza di genere che hanno dovuto subire, e poi acquisiscono competenze importanti, per esempio come gestire il proprio denaro. È un percorso personale: noi le affianchiamo, le incoraggiamo a scoprire le proprie capacità e risorse, offriamo loro nuovi strumenti ma sono le donne le protagoniste della propria trasformazione».
L’impatto dei programmi è tale che solo il 6% di coloro che ne beneficiano commette di nuovo reati, mentre il tasso nazionale di recidiva è del 50%. Come sostenete le donne tornate in libertà?
«Per chi ne ha bisogno, abbiamo questa residenza temporanea dove, per un periodo che va dai sei mesi a un anno, una nostra operatrice aiuta la ex detenuta a riconnettersi con le reti sociali “fuori”: dall’assistenza sanitaria alle opportunità di istruzione alla ricostruzione dei legami con la famiglia e in particolare con i figli. E poi ci attiviamo per la ricerca del lavoro, a volte procurando borse di studio presso altre organizzazioni per garantire la formazione necessaria. Per i primi due anni di libertà, accompagniamo le ex detenute in tutti gli aspetti della loro quotidianità, finché sono in grado di volare da sole. E sono tante le storie positive di donne che sono riuscire a ricostruirsi una vita. Come Paola, che ha ricreato il legame con le sue quattro figlie, ha un lavoro e collabora con la fondazione portando la sua testimonianza alle carcerate, per dire loro che è possibile rialzarsi nonostante il passato. O Natalia, che quando ci siamo conosciute era molto aggressiva, violenta, e dopo un lungo cammino è rinata e oggi studia all’università. Ho imparato che quando si dà un’opportunità a una donna, dal profondo del cuore, questo può fare una grande differenza nella sua vita».