Sotto l’immagine di Che Guevara papa Francesco ieri all’Avana ha spiegato in maniera semplice che cosa distingue l’evangelica attenzione ai poveri dalle ideologie pauperiste. Indicando la strada per la riconciliazione sull’isola caraibica (ma anche in Colombia)
Ogni volta che un Papa mette piede a Cuba la retorica si spreca. È inevitabile, visto quanto il mito della Revolucion irradiato dall’isola caraibica ha rappresentato nella storia recente. Il rischio – però – è sempre quello di fermarsi ai grandi scenari, alle trasformazioni geopolitiche se non addirittura alle immagini da cartolina.
Ieri invece – nell’omelia pronunciata durante la Messa nella Plaza de la Revolucion – papa Francesco è andato alla sostanza dei cambiamenti che Cuba sta vivendo, indicando una direzione. Come abbiamo ascoltato in tutti i notizari ha parlato del tema del servizio, spiegando che «il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne» e per questo «non è mai ideologico, non serve idee, ma persone». «Servire il popolo» è stato uno dei più celebri slogan dei movimenti maoisti. Ieri, proprio da una delle piazze simbolo della storia del comunismo, papa Francesco ha mosso la critica più radicale che si possa porre a quell’ideologia: quella di non avere fatto davvero i conti con la carne dell’uomo sofferente ed essersi nutrito solo di idee.
Ed è significativo che l’incontro con Fidel Castro – l’anziano leader, icona oggi malata di una Revolucion non molto più in salute – sia avvenuto proprio dopo queste parole. Ha indicato il volto del fratello anche nell’andare a trovare Fidel, papa Francesco. E in questo modo ha indicato a Cuba la strada che ancora manca: quella di una riconciliazione vera all’interno della società, che può partire solo dall’attenzione a chi è fragile. Chiunque egli sia. Perché l’abbiamo già visto in tante altre transizioni del socialismo reale: uscire dalla logica dell’embargo per aprire le porte al mondo dei più forti, a chi è in grado di fare affari, è relativamente facile (e già sta succedendo dietro le quinte anche in questi giorni all’Avana). Ma perché il muro cada davvero occorre fare sì che Cuba esca da questa logica dell’esclusione. Guardandosi da quel falso servizio che – ha ammonito il Papa – «ha come interesse il beneficiare i “miei”, in nome del “nostro”. Questo servizio che lascia sempre fuori i “tuoi”, generando una dinamica di esclusione».
In queste giornate il Papa non sta celebrando come un trionfatore il risultato del disgelo tra l’Avana e Washington. Sta guardando avanti. Ha scelto di rimanere a Cuba per ben tre giorni (tanti per gli standard dei viaggi di Bergoglio) e incontrare a fondo l’isola, recandosi ad esempio oggi anche in una città mai visitata dai suoi predecessori come Holguín. A Francesco non basta la pace dei politici: vuole che la società cubana diventi un laboratorio per il mondo di oggi così lacerato (come ha detto espressamente sabato nel discorso pronunciato appena arrivato all’Avana).
Non a caso al termine della Messa – durante la preghiera dell’Angelus – dall’Avana il Papa ha lanciato anche un appello fortissimo a sostegno del traballante negoziato di pace tra il governo della Colombia e la guerriglia delle Farc, da anni in corso proprio con la mediazione cubana: «Per favore, non possiamo permetterci un altro fallimento in questo cammino di pace e riconciliazione», ha detto. La pace chiesta «per favore» è un grido che parte dal volto di chi tanto ha sofferto a causa della guerra. È la diplomazia del cuore che va oltre le ideologie sui poveri. Per archiviarle davvero.
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La fotografia che accompagna questo articolo è stata scattata e pubblicata ieri sul suo profilo Facebook da padre Antonio Spadaro