Con queste parole, padre Daniele Badiali vent’anni fa si consegnava al suo aguzzino, salvando la vita a un’altra persona. Ora, in un libro, la sua storia
Anticipiamo un brano dell’introduzione del volume “Vado io”, di Gerolamo Fazzini (prefazione di Luigi Accattoli) in uscita per l’Editrice missionaria Emi. “Con i poveri delle Ande per incontrare Dio. Missione e martirio di padre Daniele Badiali”, recita il sottotitolo che sintetizza la missione molto “ordinaria” – ma per questo assolutamente radicale – di un missionario che, attraverso l’Operazione Mato Grosso in Perù, cercava ogni giorno con la propria vita, vissuta nella carità, di «dar prova che Dio vale più di ogni cosa».
«Tu rimani, vado io». Sono le ultime parole pronunciate, sottovoce, da padre Daniele Badiali, rivolte a Rosamaria Picozzi, la volontaria italiana che l’accompagnava la sera del 16 marzo 1997. La loro jeep era stata da poco bruscamente fermata da un malvivente che aveva intimato alla ragazza di scendere, ma padre Daniele si era opposto: «Vado io». Ed era sceso. Dopo due giorni verrà trovato morto. Ucciso da una persona vicina a lui, accecata dalla sete di denaro.
In quelle due brevi parole sono condensati non soltanto il senso del martirio di Daniele, ma l’intera parabola della sua esistenza. Nei suoi trentacinque anni di vita – percorsi velocemente, quasi avesse un appuntamento con l’Eterno cui non poteva sottrarsi – padre Daniele ha vissuto, giorno per giorno, nel segno del «Vado io». Fin da quando, a 15 anni, aveva incontrato per la prima volta l’esperienza dell’Operazione Mato Grosso (Omg). «Vado io», ha ripetuto decine di volte ai genitori uscendo per andare a uno dei tanti campi di lavoro promossi dall’Omg per raccogliere aiuti per gli ultimi dell’America Latina.
«Vado io»: non aspetto che altri lo facciano, non attendo che le condizioni siano ideali, non sto fermo, sperando che miracolosamente i guai del mondo si risolvano da soli. No: vado io. In un contesto culturale come quello di oggi – Michele Serra ha bollato come sdraiati i giovani dell’ultima generazione, Papa Francesco alla Giornata mondiale della gioventù di Cracovia ha messo in guardia i millenials dalla “divano-felicità” – suona come un messaggio quanto mai rivoluzionario. Cambiare il mondo si può: basta cominciare da dove è possibile, ossia da me stesso. Senza troppi proclami, ma vivendo la concretezza del Vangelo. «Le parole non servono per convincere la gente – scriverà anni dopo padre Daniele -. Per dar prova che Dio vale più di ogni cosa ho solo la mia vita, da vivere nella carità».
Nel «Vado io» di padre Badiali ritroviamo il segreto dell’Operazione Mato Grosso, un gruppo nato dalla scommessa azzardata di padre Ugo de Censi, un prete geniale e appassionato, e diventato uno dei frutti più significativi e duraturi del Sessantotto. Se c’è una spinta propulsiva che, anche oggi, a mezzo secolo di distanza dall’avvio non si è affatto esaurita nell’Omg, è proprio l’appello bruciante rivolto alla coscienza di ciascuno: tu cosa fai per i più poveri? Come puoi restare a guardare? Come pensi di poter essere felice da solo? Perché non ti muovi? Perché non rischi anche tu?
Daniele Badiali quella sfida decide di accettarla fin da giovane. In un tema scritto all’indomani della sua esperienza tra i terremotati dell’Irpinia osserva: «Vedo proprio che nella vita bisogna cercare di fare qualcosa di diverso, qualcosa che vada oltre te stesso. È forse utopia? Se anche lo fosse, allora ha senso credere nelle utopie». Daniele prende sul serio quell’utopia. Non da rivoluzionario ingenuo, ma come una persona convinta che valga la pena di seguire Colui che ha proposto (e ogni giorno propone) all’umanità la più assurda e strana delle utopie: dimenticare se stessi per far felici gli altri, morire per dare frutto, prendere su di sé la croce per ottenere (già quaggiù e, un domani, in forma perfetta) la gioia più grande e autentica. Come recita il ritornello di una sua canzone, La tua mano mi darai: «Se darai, se darai / quella vita che in dono hai / troverai troverai / un tesoro che non lascerai».
È un ragazzo normale, Daniele, con i suoi pregi, i suoi difetti e le sue contraddizioni. Spirito un po’ no global, ama però la Coca-Cola e i pantaloni attillati (in missione gli pioveranno critiche per questo). Gli amici, dopo la sua morte, si stupiranno di lui: leggendo le sue moltissime lettere, ne scopriranno appieno la sorprendente ricchezza spirituale e il travaglio interiore. Contemporaneamente, ricordano che Daniele amava molto la sua chitarra e gli faceva piacere essere ammirato per la bravura con cui la suonava, cosa normalissima in un giovane di quell’età. A volte, mi ha raccontato chi lo conosceva bene, Daniele si mostrava un po’ permaloso e talora teneva il muso lungo: quanti rimproveri, per questo, dall’amato padre Ugo che, ruvidamente, lo invitava a «lavarsi la faccia»!
Nonostante questi difetti (anzi: a partire da questa umanità segnata, come tutte, da fragilità e limiti), padre Daniele ha camminato dietro al Signore, insieme con i poveri, mettendosi al loro servizio. Il suo «Vado io» non è il grido di un avventuriero solitario, ma un obbediente gesto di sequela a Cristo, l’umile risposta a un appello. Daniele lo ha raccolto, convinto fermamente che tutto ciò desse senso e gusto alla sua vita.
In una lettera del 18 giugno 1996 indirizzata a don Elio Tinti, ex rettore del seminario regionale di Bologna, va dritto al cuore del suo cammino. Scrive: «Oggi più che mai sento che la vita si gioca o a favore di Dio o contro di Lui. E siamo noi cristiani con la nostra vita che dobbiamo saper morire per “salvare Dio”. Noi cristiani siamo chiamati a essere santi, tocca a noi dare la speranza di Dio, che vale più di ogni altra cosa, con la nostra vita. È un’avventura dolorosissima ma bellissima, unica, che non oserei mai cambiare per tutto l’oro del mondo».
Quattro anni prima, a un altro amico sacerdote aveva confidato i suoi sentimenti più profondi, dopo l’uccisione in Perù di Giulio Rocca, un giovane volontario dell’Operazione, freddato dai terroristi: «Mi chiedi come vivo la morte di questo amico carissimo. Ho bisogno di credere che tutto questo sia un segno di Dio, che abbia voluto svelarci attraverso la morte crudele di questo ragazzo, il senso più profondo del cammino che stiamo facendo: il martirio. Per noi è chiarissimo che Giulio è stato ucciso perché ubbidiva a Gesù facendo la carità, così come è chiaro che non riusciamo a continuare a stare qui in mezzo ai poveri se non è per Gesù».