In un tempo in cui il mondo ne ha urgentemente bisogno, ricorre oggi l’anniversario della morte di un grande testimone di riconciliazione della Chiesa del Brasile. Dall’ascolto delle popolazioni amazzoniche alle missioni in Nicaragua e in Libano l’impegno per una pace costruita partendo dal superamento della paura dell’altro
Mai come in questi ultimi tempi il mondo ha bisogno di porsi in attento ascolto dei profeti di pace. Tra essi ricordiamo il vescovo brasiliano monsignor Luciano Mendes de Almeida (1930-2006), che il 27 agosto di diciassette anni fa moriva a San Paolo (Brasile) per un cancro al fegato, lasciandoci una bellissima testimonianza di Vangelo vissuto senza “se” e senza “ma”. La fede in Gesù Cristo la tradusse in servizio ai fratelli, soprattutto agli ultimi della società, come abbiamo messo in luce in un altro articolo. Alla guida della Conferenza episcopale brasiliana, prima come segretario generale e, successivamente, come presidente, si impegnò costantemente per la pace in Brasile e in altre parti del mondo.
L’impegno per la pace
«Dobbiamo ricostruire la pace: questa è la volontà di Dio». Dichiarazione categorica di dom Luciano Mendes. Non era uno slogan, ma una certezza che lo spingeva sia a denunciare ingiustizie e crimini contro la dignità umana sia ad entrare in campo, in prima persona, ogni qualvolta la stabilità della pace fosse in pericolo. In Brasile, per esempio, si schierò al fianco delle popolazioni indigene, la cui sopravvivenza era – e è tutt’oggi – minacciata da interessi economici. Viaggiò fino allo Stato di Roraima, all’estremo Nord del Brasile, per ascoltare le rivendicazioni del popolo Yanomami, messo in pericolo da garimpeiros (cercatori di oro) e gruppi interessati all’estrazione di minerali. In seguito, in Brasilia, si riunì con circa trenta parlamentari di diversi partiti politici, con rappresentanti del Consiglio di Difesa dei Diritti della persona umana, dell’Ordine degli Avvocati e di altre entità, in cerca di una risoluzione pacifica. Con lo stesso spirito profetico, si fece portavoce delle popolazioni indigene Krenak (Belo Horizonte – Minas Gerais) e Arara (Aripuanã – Mato Grosso) per accellerare il processo di delimitazione dei loro territori e la riappropriazione di alcune loro aree. Non restò in silenzio dinanzi al massacro del popolo dei Tikuna avvenuto in Benjamim Constant, nello Stato di Amazonas. L’impegno di dom Luciano per la pace superò i confini del Brasile. Nel 1980, in Nicaragua, portò solidarietà ai superstiti del tragico terremoto e dei bombardamenti avvenuti durante la rivoluzione. Otto anni più tardi, raggiunse il Libano, dove era in corso una guerra civile. In mezzo a tanti rischi, si offrì come mediatore. Ascoltò le vittime del conflitto libanese, visitò i campi dei rifugiati cristiani e gli edifici bombardati, incontrò le autorità politiche e religiose locali e le incentivò a intraprendere la strada del dialogo. Trascorse quattro ore in conversazione privata con Samir Farid Geagea, capo della rivoluzione libanese. Il contributo del vescovo brasiliano fu decisivo per la ricostruzione della pace in Libano.
Superare la paura dell’altro
«Come sarebbe possibile vivere con gli altri se non potessimo credere in loro?», chiede dom Luciano in uno dei suoi scritti. È vero, non c’è pace che tenga quando, nelle relazioni interpersonali o internazionali, regna il sospetto. La paura porta a difendersi dall’altro, visto come una minaccia e non un dono. Purtroppo, come già faceva notare monsignor Mendes, «nell’attuale situazione della società, le nazioni più potenti hanno creato un clima di profonda sfiducia», la cui conseguenza pratica è la corsa agli armamenti. Il triste risultato non può che essere questo: «una pace ottenuta per tensione, una pace instabile perché fondata sulla sfiducia e sulla paura reciproca». La strada da percorrere è decisamente un’altra: superare la paura dell’altro e porsi in un atteggiamento sincero di «fede nel fratello», per «scoprire la formula della felicità: convivere». Non si tratta di una visione ingenua o utopica, ma di una proposta – quella di dom Luciano – che nasce da una constatazione teologica: «Dio non ha creato me [soltanto], ha creato noi, per poter vivere insieme, per amarci, per aiutarci». Infatti, «chi si chiude in se stesso non sarà mai capace di rallegrarsi per il bene altrui». Comprendere questo significa disporsi alla pace.
La pace inizia da se stessi
La pace, tuttavia, è frutto di un profondo lavoro artigianale interiore prima ancora che esteriore. Secondo dom Luciano, infatti, è necessario avere «la capacità di riconoscere i propri sbagli e di rifare la propria strada, di mantenere la libertà del cuore e la limpidezza della coscienza acquisita ogni giorno attraverso la padronanza di sé». Per il vescovo brasiliano, «l’operatore di pace è in continuo cammino per vivere innanzitutto la pace con se stesso, il suo passato, il suo modo di essere; con la natura; con gli altri; con i “diversi” imparando a scoprire le loro qualità; con quelli che offendono». L’artigianato della pace chiama in causa non solo le proprie idee, ma la totalità del proprio essere e delle relazioni e, prima ancora di indicare ad altri quale sentiero intraprendere, ci «si educa a condividere la vita con i “diversi” da sé, perché il futuro sia vissuto da un’umanità pluralista che sa riconoscere la bellezza dell’unità e che non perde la ricchezza delle diversità». Dom Luciano tratteggia l’identikit dell’autentico operatore di pace come quello di «un mistico che cresce nella vita di preghiera e impara a contemplare l’opera di Dio nei cuori umani e nella storia, senza anticipare giudizi definitivi, senza perdere la speranza, senza dimenticarsi o stancarsi di fare il bene». Il messaggio è chiaro: la pace inizia da se stessi.
Pace: dono divino e impegno umano
I recenti scenari di guerra sul palco del mondo pongono interrogativi importanti. Se è vero – come diceva Cicerone – che la storia è maestra di vita, allora non c’è che da aspettarsi una bocciatura universale. Siamo pessimi alunni. Anche la fede entra in gioco ed è messa alla prova. Infatti, per i credenti, la pace è, innanzitutto, dono di Dio e non c’è da meravigliarsi che qualcuno si chieda come mai, spesso, questo dono tardi ad arrivare. Le nostre richieste di pace, forse, restano inascoltate? Dom Luciano ci aiuta a comprendere che «senza Dio, non c’è pace, ma senza l’opera di ogni uomo, la pace di Dio non penetra i nostri cuori e non si attua nel mondo. La pace è dono di Dio perché nasce dal suo amore gratuito verso di noi e supera ogni resistenza e chiusura del nostro cuore». Chi comprende questa verità e crede davvero che «l’unica soluzione è nella forza dell’amore che vince l’odio, corregge l’errore, supera le barriere e la discriminazione e vive l’esperienza divina della riconciliazione», certamente sarà in grado di lavorare instancabilmente «per la ricostruzione della pace dopo i conflitti e gli atti perversi, e per l’avvicinamento dei popoli, la comunione fra chi, da secoli, non si accetta e cerca di distruggersi». Forse, coniugando meglio la dimensione verticale della pace con quella orizzontale, riusciremo, come dom Luciano Mendes, ad essere anche noi, nel nostro piccolo, costruttori di pace.