Don Rito Alvarez, colombiano, vive sul confine italiano incandescente per il passaggio dei migranti. Lui li ha ospitati in parrocchia, mentre in patria ha costruito due campus per togliere i ragazzi alla malavita
Da sotto il portico si vedono i campi coltivati a caffè e cacao. Alcuni ragazzi della Fondazione potano diligenti le piante del giardino attorno al refettorio, mentre quelli più grandi armati di vanga e zappa se ne vanno a raccogliere manioca. German ci chiama mentre corre in bicicletta a inseguire Mairon. Hanno dieci anni, sono tra i più piccoli, ma la sera, quando tutti si radunano per la condivisione e la preghiera di fine giornata, sanno dire la loro con una maturità sorprendente.
Don Rito l’ha chiamata Oasis de amor y paz, “oasi di amore e pace”, la fondazione nata nel 2006 che ha preso stanza qui ad Abrego, cittadina del Norte de Santander circondata da campagne rigogliose che incontrano all’orizzonte le pendici dei monti.
Nella grande casa in mattoni rossi trovano posto circa 35 tra bambini e ragazzi. Alcuni provengono da zone lontane, anche 8-9 ore in auto. Come Dixon, figlio delle comunità indigene del Catatumbo, una delle regioni peggiori tra gruppi paramilitari e coltivazione della coca. Don Rito Alvarez e la sua famiglia sono nati laggiù. E ne sono scappati, resi profughi dalla violenza che ha attraversato la Colombia per decenni: il conflitto delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) cominciato negli anni Sessanta sulla scia della rivoluzione cubana, e poi inasprito dalle guerriglie dei narcotrafficanti. C’è questa esperienza, insieme alla chiamata del Vangelo, alla base del sogno di don Rito: costruire luoghi d’istruzione per giovani che saranno il futuro del Paese. Di un Paese diverso, fondato su valori profondamente umani. Abrego è l’incarnazione di questo sogno.
Un’avventura singolare, perché Rito non vive in Colombia: il suo percorso di prete lo ha portato in Italia nel 1993. È diventato parroco a Ventimiglia. E così, da una frontiera all’altra, ha lavorato per coinvolgere la sua nuova comunità ecclesiale a finanziare e sostenere la nascita del campus di Abrego, e in seguito del Centro Semillas di Ocaña, a circa un’ora di strada, un secondo campus destinato a 60 studenti universitari che avrebbero difficoltà a pagarsi un alloggio nel capoluogo, per continuare gli studi. Entrambe le strutture comprendono, oltre agli spazi per l’accoglienza e lo studio, anche la terra da mettere a frutto. Campi da coltivare, orti, frutteti, stalle per l’allevamento di polli e maiali, stagni artificiali per la pescicoltura.
Alla base un’idea forte: che vivendo insieme e formandosi con gli studi, tutti i beneficiari, fin da bambini, imparino anche i lavori manuali e contribuiscano alla sussistenza del campus. Lo vediamo in modo particolare al Centro Semillas, dove i giovani universitari ci raccontano che, in base alla formazione accademica che hanno scelto, viene loro proposto il servizio da svolgere. Lo studente di agraria decide quali colture seminare. Quello di economia come piazzarle sul mercato cittadino.
Una settimana trascorsa nell’Oasis ci immerge in una Colombia ben lontana dall’immaginario famigerato diffuso all’estero. Una terra fertile, ricca, accogliente e multiculturale, di gente semplice e intraprendente, che ha tutte le carte in regola per fiorire agli occhi del mondo. Violenza permettendo. La sfida qui è il processo di pace con le Farc intrapreso dal presidente Manuel Santos, culminato nell’accordo del 2016 e incoraggiato dalla consegna del premio Nobel per la Pace. Una sfida che non riguarda solo la consegna delle armi e la cessazione della guerriglia, ma soprattutto l’offerta di opportunità autentiche di inclusione sociale, formazione e sussistenza alle migliaia di persone che fuoriescono da anni di clandestinità nelle zone più selvagge del Paese. Un processo tutt’altro che semplice, anche a causa dei rigurgiti violenti e dei gruppi scismatici che approfittano della transizione per accrescere la loro influenza.
Pare destino che don Rito finisse dall’altra parte del mondo e si trovasse alla porta di casa gli accampamenti di migranti africani respinti alla frontiera. Di nuovo: giovani in cerca di futuro e in fuga da una realtà di violenza e corruzione. A Ventimiglia, in nome del Vangelo, ha deciso nel 2012 di aprire la chiesa chiamata “delle Gianchette” ai migranti, difenderli, cercare soluzioni ai bisogni (e diritti) primari. Ne ha ospitati centinaia per quasi due anni, in attesa che lo Stato organizzasse un campo di accoglienza. È stato al centro di critiche, polemiche, solidarietà e riconoscimenti. È diventato uno dei nodi fondamentali della rete solidale internazionale che si è costruita lungo la frontiera, e che va dai contadini francesi della val Roya al Progetto 20K con volontari da tutta Europa, alla Caritas di cui don Rito è tuttora responsabile. Distribuzione di pasti, vestiti, sostegno legale, orientamento, denuncia della violazione di diritti e convenzioni. Un cammino condiviso con decine di parrocchiani, di gruppi ecclesiali e no, nel cuore di una delle più dolorose contraddizioni dell’Europa contemporanea, che ha ricreato muri e polizie per fronteggiare un fenomeno storico globale.
Il mantra di don Alvarez è l’istruzione, il suo sogno quello di fondare una scuola internazionale che formi i leader politici di domani attorno a valori solidi e solidali. Persone di qualità cresciute dal basso, capaci di costruire una società più equa e collaborativa. Non l’ennesimo progetto di cooperazione allo sviluppo “calato dall’alto” da una qualche ong occidentale, bensì una visione, un azzardo nelle mani della Provvidenza. Una risposta a un bisogno reale, sentito, sofferto in prima persona dalla gente del luogo. Risposta che muta, cresce e si plasma man mano che i bisogni si manifestano più precisi, che i ragazzi crescono, che la Colombia si libera.