L’anima popolare, i “sem terra”, la nuova sfida di una fede che torni a incidere nella società: padre Giambattista Giomo racconta i suoi quarant’anni dal Paraná al Nord-Est
Potenza emergente e gigante fragile, Paese della speranza ma anche casa di tante disillusioni: quando si parla del Brasile è sempre un alternarsi di luci e ombre. Ma che cosa vuol dire accompagnare le trasformazioni (e anche le contraddizioni) di questa terra, guardando però sempre con amore la sua gente? La risposta l’ho trovata in una mattinata trascorsa ad ascoltare un missionario trevigiano di Biancade che in quasi quarant’anni di Brasile non solo ne ha visto parecchio, ma ha mantenuto intatta la voglia di raccontarlo. Perché padre Giambattista Giomo il Paese che cambia lo descrive con gli occhi delle tante persone che dalle piantagioni del Sud fino al Nord-Est ha incontrato sulla sua strada.
Iniziò nel gennaio 1976, a Ibiporã – al Sud, nello Stato del Paraná – il suo servizio missionario in Brasile. In un Paese che – allora – era quello delle grandi fazendas con migliaia di braccianti agricoli. «A Ibiporã – racconta Giomo – ho imparato quanto lavoro ci fosse dietro una chicchera di caffè o un chilo di zucchero… Ogni fazenda impiegava tantissima manodopera a basso costo. Certo, poi le cose sono cominciate a cambiare, con la meccanizzazione dell’agricoltura e lo spostamento del baricentro dalle campagne alla città. In appena ottant’anni Londrina, il capoluogo del Paraná, è diventata una città di 600 mila abitanti. La stessa Ibiporã, oggi, non è più campagna: fa parte della grande area metropolitana. Ed è cresciuta con il boom industriale del Brasile, con il suo entusiasmo: anche dal punto di vista culturale, oggi è una realtà vivace».
Per padre Giambattista, negli anni Novanta, era arrivato intanto il tempo di un’altra frontiera: Nioaque, nel Mato Grosso do Sul. «Erano gli anni del movimento dei sem terra, i contadini che emigravano nelle aree strappate alla foresta in cerca di un futuro – continua il missionario italiano -. Era un tentativo di riforma agraria attraverso le lotte. Si accampavano lungo le strade che il governo apriva; come Chiesa locale li sostenevamo quando entravano nelle terre abbandonate e iniziavano le vertenze giudiziarie: abbiamo aperto tante cappelle tra questa gente».
Anni di grandi battaglie sociali; ma anche un simbolo potente di una certa disillusione che aleggia sul Brasile di oggi. «Dal punto di vista dei diritti i sem terra sono riusciti a ottenere molto – spiega padre Giomo -. Però stanno pagando il fatto che non vi sia stata una riorganizzazione vera della società. In più si fa sentire anche il passaggio generazionale: dicevano tutti che in Brasile saremmo diventati 240, anche 250 milioni, invece ci siamo fermati a 200… L’inverno demografico c’è anche in Brasile, soprattutto al Sud. E nelle piccole aziende agricole di famiglia l’effetto si vede: i figli sono di meno e quando crescono vanno in città. Il risultato è che, dopo tutte le loro lotte, i sem terra stanno rivendendo i propri assentamentos ai latifondisti…».
Contraddizioni come quelle che padre Giomo ha trovato a Pirambu, nel Brasile del Nord Est (Stato del Sergipe), dalla parte opposta del grande Paese: ormai da qualche anno svolge il suo ministero nella parrocchia di Nostra Signora di Lourdes. «Il Sergipe di oggi è quello delle piattaforme petrolifere che hanno portato un po’ di ricchezza – racconta -. Ma anche delle acque meno pescose di un tempo, dopo la costruzione delle grandi dighe sul Rio San Francesco. C’è anche il progetto Tamar per la conservazione delle tartarughe marine, una grande iniziativa di tutela dell’ambiente: è promossa dall’Istituto Chico Mendez per la biodiversità; ma è finanziata proprio dalla Petrobas, la grande compagnia petrolifera brasiliana…».
Tanti cambiamenti, dunque; molti positivi, altri un po’ meno. Eppure lo sguardo con cui padre Giomo invita a guardare il Paese in cui vive da quasi quarant’anni resta comunque rivolto in avanti.
«Il Brasile è tuttora in costruzione – riflette -, avrà una responsabilità grande nel mondo di domani: per la sua economia, per le materie prime che detiene… Ben amministrato potrebbe dare da mangiare al mondo intero. Che cosa gli servirebbe allora? Secondo me un’educazione che sappia valorizzare davvero la sua anima popolare, che è la ricchezza più grande». La sfida di oggi in Brasile «non sono i sistemi – continua il missionario del Pime -, ma ricostruire le persone, la loro dignità. Ai giovani devi dare fiducia in se stessi, trasmettere che possono puntare a qualcosa di grande. Viviamo in un Paese che deve superare i suoi complessi di inferiorità: sono assolutamente convinto che quella che stiamo vivendo sia comunque una crisi di crescita». Ed è una sfida in cui la fede può dire ancora molto: in Brasile la secolarizzazione non ha scalfito la religiosità popolare, la ricerca di Dio anche nelle tristezze della vita rimane forte.
«La grandezza che ho imparato ad ammirare nella gente del Brasile – racconta padre Giomo – è la capacità di amare la vita persino quando è rovinata dalla povertà, sia essa materiale o morale. Persino l’ubriacone che ti chiede l’elemosina (e sai benissimo che andrà a spenderla per comprarsi l’acquavite) allunga la mano e ti dice: anch’io sono figlio di Dio… C’è una dignità che nemmeno i tuoi vizi distruggono. Una bella lezione per noi che troppe volte pensiamo persino ai sacramenti come a qualcosa che bisogna meritarsi. Ed è questa nostra mentalità, alla fine, a tagliarci le gambe… Credo avesse ragione quel camionista (una grande categoria del mondo brasiliano) che sul retro del suo camion aveva messo la scritta: “Non sono padrone di niente, ma sono comunque il figlio del Padrone”…».
C’è però un grosso rischio in tutto questo: fermarsi qui, a una fede che alla fine è solo consolazione e non guida nel cammino, anche a livello comunitario. «Se non è più Dio a farti progettare la società, la religiosità fatica a diventare coerenza e vita – osserva padre Giambattista -. E in Brasile lo vediamo in mille ambiti: dalla politica alla sessualità…». Ecco allora una responsabilità particolare per la Chiesa dentro a queste trasformazioni. «Se è rimasto un sostrato del cattolicesimo in Brasile – sferza il missionario – non è stato certo grazie alle strutture con cui abbiamo ucciso il cuore, perseguendo un modello di Chiesa clericale. Abbiamo moltiplicato le diocesi, ma adesso manca il clero… Così ai preti brasiliani stiamo lasciando in eredità le strutture e pure la missione universale».
Stare accanto a questo clero diocesano: prima di tornare nel 2012 a Pirambu padre Giomo ha trascorso alcuni anni al seminario del Pime a Brusque, nello Stato di Santa Catarina, proprio accanto ai preti e ai missionari di domani. «Il Brasile di oggi ha bisogno di preti che non si chiudano nel sentimentalismo. Perché il pericolo di una religione solo emotiva c’è ed è grande – si accalora -. Dobbiamo tornare a dire che il Vangelo è un’esperienza che tocca tutta la vita. Dobbiamo ricominciare a promuovere l’impegno sociale dei laici, a tutto tondo, anche nella politica. Ma possiamo farlo solo se ripartiamo davvero dalle periferie esistenziali, come ci indica Papa Francesco. Con nuove comunità che si fanno presenti in luoghi come gli ospedali, le carceri. Proponendo lì una fede solida, non solo consolatoria». Una fede da vivere insieme.
«Il missionario è uno che comincia da zero? Non vale certo per la mia esperienza… – commenta ancora -. Dovunque sono andato ho solo innaffiato quanto altri avevano iniziato prima di me. La missione è sempre un’esperienza corale, si fa insieme. Del resto senza i laici la Chiesa dell’America Latina semplicemente non c’è…». «Mi fanno paura i preti quando vivono troppo isolati -conclude-: la nostra vita è l’amicizia con la gente, un rapporto in cui ci si aiuta, si è amici nella fede. Altrimenti alla fine ci ritroveremo solo con tanti preti feriti e anche affettivamente un po’ immaturi. Invece abbiamo bisogno di preti che non condannino nessuno del proprio popolo, ma piuttosto aiutino ciascuno a compiere i passi che può fare. Nessuno si salva per i suoi meriti, ci salva solo la Grazia. Io non so bene come, ma dobbiamo camminare per arrivare qui».