Il Messico di papa Francesco

Il Messico di papa Francesco

Dal 12 al 17 febbraio, Papa Francesco visita uno dei Paesi più contraddittori del Centroamerica, con un’economia emergente, ma continuamente funestato da gravi violenze e narco-mafie

 

Tremila chilometri separano San Cristóbal de Las Casas da Ciudad Juárez. Tremila chilometri si frappongono tra il labirinto verde-felce della Sierra Lacandona, incastonato tra Messico e Guatemala, e il giallo aspro del deserto del Chihuahua, dove la “Linea” – la frontiera con gli Stati Uniti – si apre come una ferita inferta dallo squarcio metallico del “Muro”. Non c’è una strada diretta tra il Sud indigeno, “inabissato” negli anfratti della cultura bianca e dominante, e il Nord insanguinato dalla narco-violenza e dal potere ostentato dei cartelli della droga (vere e proprie multinazionali del crimine).

Lo sanno bene i centroamericani – in media mezzo milione di persone, in prevalenza provenienti da El Salvador, Honduras e Guatemala – che, ogni anno, attraversano il Paese mentre inseguono il “miraggio” americano. Poveri e senza permesso, i migranti si sottopongono a un’estenuante gimkana, viaggiando sui tetti de “La Bestia”, l’intricata rete di treni merci che, tratto dopo tratto, li conduce verso il confine settentrionale. O, meglio, si sottoponevano. Da quando, nell’agosto 2014, il Plan Frontera Sur, varato dal governo su pressione “informale” degli Usa, ha aumentato i controlli su “La Bestia”, tanti vanno avanti a piedi o nei doppi fondi di bus affittati a caro prezzo dai coyotes, i trafficanti di esseri umani. Il numero di migranti, dunque, non è diminuito: a calare ulteriormente sono state, invece, le chance per questi ultimi di arrivare incolumi a destinazione. In quei tremila chilometri di abusi d’ogni tipo, soldi estorti, pestaggi, ricatti, violenze – commessi da polizia, delinquenti locali e, soprattutto, narcos -, il sogno dell’El Dorado Usa si trasforma in un incubo, da cui troppi non si risvegliano. In quei tremila chilometri di vite spezzate e progetti interrotti, il Messico attuale si svela nelle sue contraddizioni di 14esima economia del pianeta e terra di nessuno, dominata dalle mafie.

Per questo, Papa Francesco ha scelto di percorrerli nella visita al Paese, tra il 12 e il 17 febbraio. Nel programma, presentato lo scorso 12 dicembre, giorno della Madonna di Guadalupe, Patrona del Messico e Imperatrice d’America, figurano tre tappe principali, oltre alla capitale: San Cristóbal e Tuxtla Gutiérrez in Chiapas, Ciudad Juárez in Chihuahua e, nel mezzo, Morelia, in Michoacán. Tre luoghi emblematici del poliedro-Messico, per utilizzare un’espressione familiare al Papa. Ci sono le due frontiere, sud e nord, attraversate dal medesimo, incessante flusso migratorio e marchiate a fuoco da drammi diversi: povertà, emarginazione, repressione a “bassa intensità”, l’una; ferocia dei signori del crimine, corruzione e impunità, l’altra. E c’è Morelia, emblema vecchio e nuovo della narco-guerra. Perché là il conflitto è “scoppiato” in tutta la sua brutalità con il massacro della folla inerme da parte dei sicari della “Familia Michoacana”, durante la festa di indipendenza, il 15 settembre 2008. Perché là, nel 2013, si sono formate le controverse milizie di civili anti-narcos, trasformando il Michoacán in un caso internazionale. E perché, negli ultimi tempi, la regione è uno dei nuovi epicentri della guerra criminale.

Il vescovo di San Cristóbal de Las Casas, Felipe Arizmendi, ha detto che la visita di Francesco si può sintetizzare in quattro punti: la Vergine di Guadalupe, gli indigeni, la violenza, la migrazione. È proprio la profonda devozione per la Morenita, come i messicani chiamano la loro Patrona, a condurre Francesco nella capitale Città del Messico, dove si trova la Basilica di Tepeyac.

Dopo tre giorni nella capitale e nei vicini sobborghi emarginati dell’Ecapec, il Pontefice arriverà, dunque, in Chiapas, ventidue anni dopo la “rivolta zapatista”, che strappò la seconda regione più povera del Messico dal “dimenticatoio” internazionale in cui era confinata. Il primo gennaio 1994, i guerriglieri dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) presero il controllo per alcune settimane di San Cristóbal. Il mondo rimase di sasso di fronte all’insurrezione dei nativi, guidati da un carismatico leader con il passamontagna, il subcomandante Marcos. La popolazione chapaneca, invece, non si stupì più di tanto. I nativi – oltre un quarto della popolazione, divisi in 64 etnie, di cui quattro principali: tzeltal, tzotzil, chol e zoque – sono abituati ai periodici ritorni del “Rey Indio”.

Con questo nome, la leggenda ha trasfigurato Juan López, l’umile venditore di zucchero tzeltal che, vedendo i soldati spagnoli massacrare la propria gente nel villaggio di Tzuluwitz, nel 1712, sfidò le autorità coloniali. Fu l’inizio di un’imponente sollevazione: i nativi, per alcuni mesi, tennero testa ai conquistadores. Poi, López fu catturato e impiccato, ma per i discendenti dei maya non è mai morto. Si aggira nella giungla e, di tanto in tanto, riappare per incitare il suo popolo alla ribellione contro l’ingiustizia. Una metafora perfetta della questione chapaneca: una rivoluzione eternamente incompiuta, che esplode ciclicamente, come reazione alla condizione di perenne marginalità in cui si trova la regione. Secondo una recente indagine ufficiale, sei abitanti su dieci vivono in condizioni di miseria. I tre quarti sono indigeni. Il 40% di questi ultimi è analfabeta e la metà vive con meno di quattro dollari al giorno. Una condizione denunciata con forza dalla Chiesa locale.

L’impegno del defunto vescovo Samuel Ruiz – guida della diocesi di San Cristóbal dal 1959 al 2000 – è stato fondamentale per il riconoscimento della dignità dei popoli indigene. Con coraggio evangelico e sguardo profetico, Ruiz promosse una pastorale incentrata sull’inculturazione della fede nella storia e nella cultura indigena. E favorì la formazione di oltre ottomila catechisti nativi. Quando esplose la sollevazione zapatista, la mediazione di don Samuel – o “Tatic”, come lo chiamavano gli indios – impedì un bagno di sangue. E consentì il raggiungimento degli accordi di pace, spesso violati dall’esercito. Gli zapatisti, ricacciati nella Sierra, si sono radicati a livello locale, costruendo una serie di municipi autonomi nel Nord. Questi si richiamano all’antica tradizione indigena e sono riuniti nelle cinque entità amministrative dette “Giunte del buon governo”, la cui autorità si sovrappone a quella dei “comuni ufficiali”.

Il risultato è un delicato equilibrio di poteri, messo a rischio, in numerose occasioni, dalle incursioni di gruppi militari e paramilitari. Fedele al proprio mandato, Ruiz denunciò la repressione, attraverso la creazione del Centro per i diritti umani fra Bartolomeo de Las Casas (Frayba), 26 anni fa. Dopo la sua rinuncia, per raggiunti limiti di età, tale azione di difesa degli indios è proseguita dal successore, don Felipe. Non a caso, in occasione della visita del Papa, quest’ultimo ha “riservato” un’attenzione speciale ai nativi, con momenti ad hoc e la celebrazione di una Messa plurilingue. Il giorno dopo, Francesco volerà verso nord, a Morelia, e infine a Ciudad Juárez per immergersi nel dramma della narco-guerra che, negli ultimi dieci anni – da quando l’ex presidente Felipe Calderón ha schierato l’esercito contro i narcos – ha fatto oltre 160 mila vittime, 26 mila scomparsi, centinaia di migliaia di sfollati . Data l’incapacità dei governi, precedente e attuale, di contrastare efficacemente l’infiltrazione dei cartelli nelle istituzioni, il conflitto va avanti, divorando un’intera generazione di messicani. Sacerdoti inclusi: undici sono stati massacrati negli ultimi tre anni, altri due sono desaparecidos. Uno dei tanti paradossi del Paese con più cattolici al mondo. Eppure, la ferocia dilagante non ha spento la resistenza della società civile. Che, ostinata, cerca di non farsi soffocare dai narcos, il cui business cresce a dismisura soprattutto grazie ai generosi consumatori europei e Usa. È la globalizzazione del crimine. E dell’indifferenza. Il grido di dolore del Messico, però, continua a risuonarci nelle orecchie. Francesco lo ha ascoltato. E, con la sua presenza, esorterà tutti – fedeli e non – a fare altrettanto.