Da Torino a San Salvador, cinquant’anni di battaglie per la giustizia e i diritti umani. La vicenda di Beatrice Alamanni De Carrillo
«Ciascuno può avere un ruolo positivo nella società. È quanto ho imparato da padre Ignacio Ellacuria: l’idea che anche la nostra azione più semplice serve a trasformare il mondo». Parla di sé e non può che citare il rettore dell’Uca, l’Università dei gesuiti a San Salvador, trucidato assieme ai confratelli e a due dipendenti dell’ateneo nel novembre 1989. Ma più che ai ricordi di un maestro come padre Ellacuria è all’attualità della sua profezia ancora incompiuta che guarda Beatrice Alamanni De Carrillo.
Torinese, studi in giurisprudenza con Norberto Bobbio, Beatrice in Salvador ci arrivò per amore nel 1968 insieme al marito Juan Antonio, ingegnere salvadoregno di una famiglia importante del Paese conosciuto durante gli studi in Italia. E in questi cinquant’anni così difficili questa terra non l’ha mai lasciata. «Mi hanno convertito i poveri e la vita accanto ai martiri», spiega.
Insegnava anche lei nell’università finita nel mirino degli squadroni della morte. L’aveva chiamata proprio padre Ellacuria ad aprire un dipartimento di diritto: la sua idea era ribaltare l’impietoso detto popolare del Salvador secondo cui «la giustizia morde sempre il piede di chi è scalzo»; il diritto come risposta sia a un sistema economico ingiusto sia alla violenza rivoluzionaria. Anche dopo l’eccidio e il trauma personale vissuto, Beatrice ha continuato a portare avanti da giurista e da credente questa stessa battaglia. Fino al punto di essere chiamata nel 2001 dal Parlamento salvadoregno a svolgere il delicatissimo incarico di procuratrice nazionale per i diritti umani. Compito portato avanti per sei anni in modo inflessibile, chiedendo di riaprire le indagini sui crimini della guerra civile che l’amnistia generale aveva archiviato in tutta fretta; ma anche occupandosi dei diritti dei giovani, dei lavoratori, delle popolazioni indigene, delle donne, dei migranti che vedono ormai nell’ingresso illegale negli Stati Uniti l’unica speranza. Presenza scomoda, la sua: se oggi è ancora viva è solo perché nel 2002 un detenuto – durante una delicata mediazione in una rivolta carceraria – la scaraventò a terra salvandola dal proiettile di un misterioso cecchino che dall’esterno del penitenziario aveva provato a toglierla di mezzo.
Tutta questa storia – ma anche lo sguardo di fede che l’ha costantemente animata – adesso l’ha raccolta in «Ahora y aquí», il libro in cui, per l’editrice Il Margine, ripercorre i suoi anni in Salvador, dove tuttora vive e insegna. E continua a dare voce alla sete di giustizia in un Paese che non ha mai voltato pagina davvero.
«La fine della guerra non fu opera dei salvadoregni – ricorda -. La decisero le grandi potenze, perché nel clima del dopo-1989 era diventato un conflitto superato. In questo modo, però, tutto è rimasto come prima, con le stesse ingiustizie. Credo che proprio l’uccisione di padre Ellacuria, avvenuta durante l’ultima fiammata di violenza della guerra civile, abbia lasciato un vuoto mai più colmato in Salvador: abbiamo pagato la mancanza della sua intelligenza illuminata, molto vigile, capace di porsi al di sopra della contrapposizione rigida tra destra e sinistra».
Le chiediamo il suo ricordo del beato arcivescovo Romero, assassinato a San Salvador il 24 marzo 1980: «Lo conobbi attraverso la sua voce straordinaria nelle omelie domenicali trasmesse alla radio – ricorda -. Erano denunce tremende di tutte le persecuzioni, dei morti, dei desaparecidos: parole di un coraggio estremo. Chiedeva al popolo di vivere il cristianesimo nella carne, ogni giorno, per cambiare quella società. Non ha mai invocato la rivoluzione, ha sempre cercato di evitare la guerra. Dava dignità al popolo, anche ai più disperati; chiedeva loro di sentirsi popolo di Dio».
In Salvador si parla ormai apertamente di una sua imminente canonizzazione, ma Beatrice De Carrillo invita ad andare oltre le apparenze: «Ci sono i grandi sostenitori che ne tengono viva la memoria – chiosa -, ma c’è anche chi lo considera tuttora un comunista che distruggeva lo status quo. Certo, adesso è diventato una gloria nazionale. Ma quando un Paese uccide i suoi santi la purificazione è un cammino difficile…».
Poi ci solo le ferite di oggi, ad esempio quella delle maras, le bande giovanili che con la loro violenza insanguinano il Salvador. «All’inizio era essenzialmente una questione di disagio sociale – racconta l’ex procuratrice -. Poi è diventata una guerra tra gruppi potentissimi, manovrati dal narcotraffico che li rifornisce di armi. Il problema è che non possiamo guardare solo alla repressione, occorre pensare al recupero di questi ragazzi. Da procuratrice mi sono schierata contro le leggi speciali che i governi dell’epoca avevano varato contro le maras. Mettevano in contrapposizione la sicurezza con la difesa di diritti fondamentali che valgono per tutti, anche per un giovane arruolato in queste bande».
Quanto all’oggi dell’America Latina Beatrice De Carrillo non trattiene l’amarezza per la situazione in Venezuela: «C’erano le potenzialità per un cambiamento, per costruire una società più giusta – spiega -. Invece una volta al potere i chavisti si sono dimostrati una dittatura volgarissima, proprio come le altre. L’eredità di oggi è solo una polarizzazione in uno scontro senza sbocchi. E ho paura che non valga solo per il Venezuela: anche in Salvador c’è il rischio di arrivare a una contrapposizione estrema con al centro un potere fine a se stesso».
C’è però un elemento di speranza su cui Beatrice De Carrillo conta molto: il coraggio delle donne salvadoregne. «Sono state loro il motore della società negli anni della guerra civile – racconta -; sono uscite trasformate da quell’esperienza. Oggi le donne in Salvador lottano per i loro diritti, sono protagoniste anche nel mondo dell’imprenditoria. Hanno acquisito una coscienza che resta una risorsa preziosa per questo Paese».