Compie mezzo secolo di vita l’Operazione Mato Grosso, presente in diversi Paesi latinoamericani con 90 missioni e oltre 600 volontari. Rinnovando l’entusiasmo insito nell’intuizione di padre Ugo de Censi
L’Operazione Mato Grosso (Ogm) – gruppo di volontariato giovanile nato dal carisma di padre Ugo de Censi e diffuso in vari Paesi del Sudamerica – è arrivata al giro di boa del mezzo secolo. Un traguardo importante, per comprendere la portata del quale basterebbero alcuni numeri molto significativi. Solo in Perù – il Paese dove la presenza è più massiccia – si contano una cinquantina di missioni sulla Sierra, lungo la costa e nella selva amazzonica; complessivamente sono attive 90 case con 600 volontari permanenti: laici (spesso coppie con figli), sacerdoti e un piccolo gruppo di ragazze consacrate. I vari laboratori di falegnameria e per la lavorazione di pietra, vetro e tessuti impegnano quasi un migliaio di artigiani, per un terzo donne, mentre sono ben 20 mila i bambini e ragazzi coinvolti nella preparazione ai sacramenti (Comunione e Cresima) e nelle numerose iniziative educative. L’ospedale “Mama Ashu” a Chacas, 3.300 metri sul livello del mare – l’unico in quella zona – accoglie ogni anno quasi 30 mila pazienti. Ad essi si aggiungono orfani, disabili e anziani accuditi in molteplici forme.
A favore di questo notevole impegno è attiva, in Italia, una rete capillare di sostegno: singoli e gruppi, in particolare di giovani, fanno mille lavori (dalla raccolta delle pesche ai traslochi o agli sgomberi delle case) i cui proventi vengono inviati in missione. Non mancano poi maxi-raccolte viveri: l’ultimo esempio a Lecco, dove, nei giorni di Pasqua, è stato riempito un container con ben 250 quintali di generi alimentari.
Fin qui le cifre. Ma i numeri non dicono tutto, anzi. Per capire l’Omg, la sua singolare identità e il segreto della sua vivacità, occorre tornare alle origini, a quello che avrebbe dovuto essere un campo di lavoro di pochi mesi e invece, provvidenzialmente, è diventata un’avventura di carità che dura da mezzo secolo.
L’Operazione Mato Grosso nasce su iniziativa di padre Ugo de Censi, salesiano, il quale subito dopo l’ordinazione sacerdotale viene inviato al riformatorio di Arese, a contatto con i “ragazzi difficili”. Dopo un po’ padre Ugo – al quale sono stati affidati gli oratori salesiani dell’Italia del Nord – intuisce che, così come sono, non funzionano più: occorre coinvolgere ragazzi e giovani in maniera diretta, “pro-vocarli”, aprendo loro gli occhi sui poveri.
Giusto in quel periodo, a metà degli anni Sessanta, riceve un Sos da un sacerdote valsassinese suo amico e confratello, padre Pedro Melesi. Quest’ultimo era stato destinato nel 1955 alla missione di Poxoreo, nello Stato brasiliano del Mato Grosso, una delle aree più arretrate del Paese. A padre Pedro l’amico Ugo aveva ripetutamente promesso di andare a trovarlo in Brasile, ma senza mai riuscirci. Finché non arrivò il momento propizio: l’ultimo giorno di un campo in Val Formazza padre Ugo butta lì la proposta: «Ragazzi, cosa ne pensate se il prossimo anno andassimo da padre Pedro in Brasile?». Dopo un momento di silenzio, «occhi e orecchie tesi e increduli», ricorda padre Ugo, uno scrosciante battimani saluta il “sì” alla proposta. Commenta il carismatico sacerdote: «Fu un fiammifero sulla benzina. Una fiammata. Così è nata – per entusiasmo – l’Operazione Mato Grosso».
L’anno dopo, in luglio, parte la prima “spedizione”: siamo (e non è un caso) a pochi mesi dalla pubblicazione della “Populorum Progressio” di Paolo VI, l’enciclica che spalanca alla Chiesa le immani problematiche degli squilibri e delle ingiustizie globali.
Nell’arco della loro breve permanenza, i volontari contribuiscono alla costruzione di una scuola e di un ambulatorio. Ma, al di là dei risultati materiali, l’esperienza vissuta segna profondamente i giovani e dà vita al primo embrione dell’Omg. Lo spirito che pervade il gruppo può essere descritto con alcune frasi particolarmente significative: «Il primo ricco da convertire sono io, non gli altri»; «il pane guadagnato col sudore della fronte è tuo, ma impara a dividerlo con chi non ce l’ha»; «la società ti insegna a guardare avanti, a chi sta meglio; il Vangelo ti educa a voltarti indietro, verso chi sta peggio». A dire: la radicalità del Vangelo coniugata con le migliori idealità del Sessantotto: ricerca di autenticità, insofferenza al formalismo, voglia di protagonismo e concretezza, sete di giustizia e solidarietà. Nel 1968 parte una seconda spedizione, con 50 giovani, alcuni dei quali vanno in Brasile, altri in Ecuador. Due anni dopo è la volta della Bolivia: un centinaio i giovani coinvolti. Ne seguiranno decine e decine, con giovani che dedicano chi sei mesi, chi due anni, chi la vita intera (i cosiddetti “permanenti”).
Lungo il suo cammino, tuttavia, anche l’Omg risente del clima sessantottino e delle sue derive. In breve si vanno delineando due stili di intervento: il primo che punta sulla “coscientizzazione” dei poveri e mira fondamentalmente a un lavoro sociale e al cambiamento delle strutture politiche. Il secondo, sostenuto con forza da padre Ugo, centrato più sull’aspetto educativo, sul cambiamento del cuore dell’uomo come premessa indispensabile al mutamento delle condizioni socio-politiche. Tale primato dell’educazione verrà riconosciuto dal cardinale Carlo Maria Martini, che, visitando nel 2011 un centro dell’Omg in Perù, dirà: «Ho sempre desiderato vedere con i miei occhi come fosse l’oratorio di Valdocco quando c’era don Bosco. Il mio desiderio è stato esaudito qui, ai piedi delle Ande».
Un esempio dell’itinerario di molti membri dell’Omg – dal rifiuto del “sistema” a una più matura assunzione del problema della giustizia – lo troviamo in alcune lettere di Giulio Rocca, ucciso nel 1992 dai terroristi di Sendero Luminoso, uno dei due “martiri della carità” dell’Omg (l’altro è padre Daniele Badiali, assassinato nel 1997).
Scrive Giulio in una lettera giovanile da “no global” ante litteram: «Bastardi occidentali che non siamo altro! Andiamo al diavolo noi, le nostre idee, le nostre macchine, la nostra perfezione… e, perché no, anche quel “nostro” Signore che abbiamo usato per rendere povera questa gente». Dopo qualche tempo, a contatto con la realtà concreta, le parole di Giulio acquistano una tonalità meno retorica, più vera. «Mi sto stufando dei poveri… Li vedo concretamente come sono, e non sempre li giustifico; ma, invece di abbattermi, mi viene voglia di restare e di cercare di fare di più. Perché mi accorgo che la povertà materiale non è niente di fronte a quella morale e spirituale».
Intanto, in Italia, l’Omg si rivela una sorta di “virus” positivo, che si trasmette velocemente per contagio personale. Emblematica, in tal senso, la nascita del gruppo locale di Faenza, ancora oggi uno dei più dinamici. Antonella Romboli racconta: «Uno del nostro gruppo, Giorgio Nonni (in seguito prete), era stato per oltre due anni in un lebbrosario, da suor Silvia Vecellio, a Campogrande, in Brasile. Partito, all’età di vent’anni, cercando qualcosa di diverso, aveva conosciuto l’Operazione Mato Grosso. Una volta tornato, voleva continuare quell’esperienza. Grazie al sostegno del nostro parroco, l’Omg mise radici da noi, nonostante fosse qualcosa di un po’ fuori dalle righe, proponesse esclusivamente lavori manuali e noi fossimo sempre sporchi, una delle ragioni per le quali i genitori si lamentavano…». Già, perché, da sempre, Omg fa rima con fatica, sacrificio, ma anche allegria e vita comunitaria.
Nonostante la sua proposta esigente, faticosa e radicale (anzi, forse proprio per questo), l’Omg via via mette radici. Inoltre, ad attirare molti è il principio di aconfessionalità che contraddistingue il gruppo: ai ragazzi che intendono dedicarsi ai poveri non viene chiesto di aderire alla Chiesa o di professare la fede cattolica, quanto di impegnarsi per gli ultimi, mettendosi, tuttavia, in un atteggiamento di ricerca sul valore e il significato della vita. Di fatto, nel corso degli anni, tantissimi aderenti all’Omg compiranno (così come compiono tuttora) splendidi cammini di fede e conversione personale. Ma il non aver posto barriere di accesso permette a padre Ugo di coinvolgere nell’Omg molti ragazzi e ragazze che, vivendo una stagione di disagio nei confronti della Chiesa-istituzione, erano alla ricerca di nuove strade di impegno e di risposte autentiche al loro desiderio di una pienezza di vita.
Proprio la fede vissuta nel quotidiano, senza finzioni, e il mettersi in gioco in prima persona di tanti sacerdoti dell’Omg hanno toccato anche il cuore di Massimo Aliprandi, brianzolo di Sovico, in missione dal 2006; sposato con Cristina Consonni, ha tre figlie. «L’esempio di padre Daniele Badiali mi aveva colpito molto, un po’ come tutti i preti dell’Omg in missione, del resto, diversi da quelli che avevo conosciuto in Italia, più “umani”, più attenti alla vita vissuta. Mi colpiva che lavoravano, si impegnavano molto. Se mi sono un po’ riavvicinato alla Chiesa è stato grazie a padre Daniele Badiali e agli altri preti dell’Operazione».