Accomunate dallo stesso dolore e dalle stesse paure, le madri dei giovani delle «pandillas» attraverso l’associazione «Fe y Alegria» collaborano per lo stesso obiettivo: mettere fine alla guerra tra bande, affinché non perda la vita un solo giovane in più
Le chiamano le “madri orfane”: sono le donne dei quartieri più violenti di Caracas a cui la guerra tra “pandillas”, le bande armate, ha portato via i figli. A Catuche, un quartiere della capitale venezuelana, si fronteggiavano La Quinta e Portillo, e negli scontri alcune di queste madri hanno perso fino a 5 figli. Il picco di violenza risale agli anni 90, quando la guerra era al suo apice; tutti erano coinvolti, nessun giovane riusciva a sottrarsi alla logica del doversi schierare.
Catuche non era certo il solo quartiere in guerra, e proprio le battaglie per il controllo del territorio trasformarono il Venezuela in uno dei paesi più insicuri al mondo. Ancora oggi, Caracas è tra le città più violente nel mondo; nel 2016 ci sono stati 130 omicidi ogni 100mila abitanti.
Dopo che per anni le madri di questo quartiere hanno pianto, nascosto in casa le armi dei loro figli, cercato anche di denunciare i membri della pandilla avversaria, nel 2007 la svolta: le donne orfane e quelle che rischiavano tutti i giorni di diventarlo hanno stretto un accordo di pace, con l’obiettivo di costringere i loro figli, membri di bande armate avversarie tra loro, di deporre le armi.
Nel mese di agosto di quell’anno si registrò lo scontro più violento a memoria degli abitanti: ci furono decine di feriti e morì un ragazzo, un giovane di 18 anni. Per sua madre, Yanara Tovar, si trattava del secondo figlio perso nella guerra tra bande. Fu lei a rivolgersi all’associazione cattolica Fe y Alegrìa, che ha una sede a Catuche. Ci trovò Doris Barrento, mediatrice sociale e docente, che si lasciò convincere a fare da mediatrice per mettere insieme le madri del quartiere. Non fu un processo semplice: a causa della rivalità tra figli, le stesse donne non potevano entrare nella parte del quartiere controllata dalla banda avversaria. Ma, accomunate dallo stesso dolore e dalle stesse paure, le madri riuscirono facilmente a collaborare anche per lo stesso obiettivo: mettere fine alla guerra tra bande, affinché non perdesse la vita un solo giovane in più. Nacque una commissione di pace, che organizzò il primo incontro con le bande. Di fronte alle loro madri, i giovani, membri di entrambe le bande, vennero convinti a fermare la guerra, firmando un accordo che prevede anche delle precise norme di comportamento. Per esempio, non fermarsi sul confine delle due zone per non farlo sembrare una provocazione; non vendere droga nel quartiere; non ostentare armi da fuoco. Le bande concordarono che alla terza violazione dell’accordo sarebbe stata chiamata la polizia, una misura che è stata più un deterrente che una reale intenzione.
Dalla firma di quell’accordo, si organizzano ancora oggi incontri periodici, e le madri si consultano quotidianamente. Il meccanismo funziona: il patto regge ancora oggi. Le madri ammettono che sul commercio di droga hanno dovuto “tirare le orecchie” più volte ad alcuni ragazzi, ma da quando è stato firmato l’accordo, a Catuche non ci sono più stati morti ammazzati. Per questo il progetto è stato premiato nel 2016 dall’ambasciata canadese in Venezuela, ed Amnesty International l’ha pubblicato tra i progetti comunitari per la pace considerati di successo.
Per questo Barrento sta lavorando per sviluppare questa esperienza e trasmetterla alle comunità ancora “in guerra”, assieme all’associazione Mi Convive, all’interno della campagna internazionale Instinto de Vida, presente anche in Brasile, Messico e Colombia. Dialogo e prevenzione sono le parole chiave dei workshop e delle attività di sostegno alle vittime. L’obiettivo è di ridurre il numero di omicidi fino a azzerarli, e di incentivare le buone pratiche comunitarie che, come nel caso di Catuche, hanno dimostrato risultati positivi.