A Manaus padre Robert e padre Bosco, due missionari originari dell’India, vivono il loro servizio nell’animazione con i giovani in mezzo alla gente. Anche in periferie dure come il carcere
Si fanno chiamare semplicemente padre Robert e padre Bosco. E questo rende tutto più facile, non dovendo pronunciare il loro lungo nome indiano. Sono giovani – 42 e 33 anni – rispetto ai missionari italiani del Pime in Amazzonia, in molti casi ben oltre la soglia della pensione per quanto ancora molto attivi. «Hanno una mentalità missionaria diversa – dice padre Piero Facci responsabile delle attività di animazione missionaria e vocazionale dell’istituto a Manaus -. I missionari del passato arrivavano con l’idea di fondare la Chiesa e l’hanno fatto. Si concentravano sulle strutture e sulle attività».
Buona parte della diocesi di Manaus è nata proprio per successive divisioni della grande parrocchia di Nostra Signora di Nazareth affidata al Pime nel 1948. Nel frattempo anche la città è passata da 60 mila a due milioni e mezzo di abitanti, diventando la più grande di tutta l’Amazzonia. Nel futuro, ormai ridimensionato, del Pime a Manaus ci saranno due sole parrocchie, che non prevedono ulteriori suddivisioni. Che cosa faranno, allora, i nuovi missionari?
Nel caso di padre Robert lo vedo personalmente, nella sua estesa missione di campagna a Rio Preto da Eva: 41 comunità e cinque nuove in formazione lungo 110 chilometri di strada. Padre Bosco invece lo spiega in poche parole, mentre visitiamo la sua parrocchia di San Benedetto: contatto con le persone, accompagnamento, gruppi familiari e giovanili, visita alle famiglie, attenzione ai poveri che possono essere i carcerati e i loro parenti, i drogati, i senza casa. Non serve più costruire cappelle e sale di incontri e catechesi. Eventualmente ci pensa la gente. Per il prete missionario la preoccupazione principale è la gente stessa.
L’idea di padre Bosco è che la missione oggi non si restringe ai confini di una parrocchia o di un quartiere di cui uno può essere responsabile. «Fin da quando ero seminarista – spiega – ho sviluppato un interesse particolare per le carceri. A soli 33 anni mi sono già fatto un’esperienza al riguardo in tre Paesi diversi: durante gli studi in India e nelle Filippine, ora in Brasile: prima a Parintins, all’interno dell’Amazzonia, adesso a Manaus. Ci vado ogni sabato. Un paio di volte al mese celebro la Messa». Ci vai da solo? «No, porto sempre con me alcuni giovani. All’inizio erano terrorizzati all’idea e riuscivo a trovarne solo uno o due. Adesso ho un giro di quasi venti persone».
L’anziano parroco di San Benedetto, padre Emilio Buttelli, spiega che è proprio la carenza di operatori pastorali e di contatto con la gente a favorire le Chiese evangeliche su quella cattolica: «Ormai qui sono loro che contano. In una miriade di cappelle aperte ovunque per strada raccolgono almeno metà della popolazione. Gli altri sono cattolici di nome, ma quelli che partecipano e sono attivi saranno il dieci per cento. A Manaus c’è un quaranta per cento della popolazione che non partecipa a nessun gruppo ed attività religiosa cristiana».
Padre Bosco ritiene importante visitare anche le famiglie dei carcerati: « Altrimenti, quando escono nessuno è pronto ad accoglierli e accompagnarli. Tornano quasi tutti a delinquere e finiscono di nuovo in carcere». A Parintins tempo fa gli è stato chiesto di fare da mediatore in un caso di ribellione con una vittima: «Sono rimasto scioccato. Non avevo mai visto un corpo decapitato».
Ma la prima preoccupazione per padre Bosco sono i giovani: «Se non si sentono seguiti personalmente vanno in cerca di esperienze spirituali superficiali con i gruppi pentecostali. Sto cercando di ricostituire i gruppi giovanili in tutte le cappelle. Di inserirli nelle attività e nei ministeri della comunità ecclesiale. Devono sentirsi attivi e protagonisti». Anche padre Robert la pensa allo stesso modo. E i due missionari vogliono educare i loro giovani a guardare oltre il piccolo orizzonte quotidiano, oltre il loro piccolo gruppo e la loro parrocchia. Anzitutto li faranno incontrare tra loro qualche volta: quelli della campagna in città e quelli della città in campagna. Poi li inviteranno a visitare ed aiutare i giovani della Fazenda da Esperança, appena fuori Manaus, per il recupero di ragazzi e ragazze tossicodipendenti. Infine i ragazzi saranno sfidati ad aprirsi al mondo: «Qui a San Benedetto – racconta – è già nato un gruppo che si fa chiamare “Gioventù Pime” con uno specifico interesse per il nostro istituto missionario, le nostre attività nel mondo, eventualmente per qualcuno anche un cammino ed una scelta vocazionale». MM