Il governo è sempre più staccato dalla gente, denuncia il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde, fra gli organizzatori della protesta che sta dilagando in tutto il Paese.
L’aumento della benzina ha acceso la miccia della protesta, ma ormai migliaia di persone scese in piazza in Messico chiedono di più: le dimissioni del presidente Enrique Peña Nieto e di tutto il suo entourage.
Tutto è cominciato con la lotta contro il “gasolinazo”, ovvero l’aumento brusco del prezzo della benzina deciso dal governo a partire dal primo gennaio. Le proteste sono iniziate a inizio anno quando, dopo la liberalizzazione del mercato, sono entrati in vigore gli aumenti dei prezzi che hanno portato la benzina da 13,98 pesos per litro a 15,99 pesos. Un incremento del 20% che coincide con un aumento del prezzo del petrolio a livello globale e arriva dopo un periodo che ha visto le stazioni di rifornimento del Messico a secco di carburante, a causa della crisi dell’azienda monopolista Pétroleos Mexicanos, sostenuta da sussidi statali. Il “gasolinazo” di gennaio ha fatto esplodere la protesta, che si è estesa da Veracruz a Puebla, da Monterrey a Città del Messico. Migliaia di persone sono scese in piazza e ci sono stati anche atti vandalici, con distruzioni e saccheggi di negozi.
Le manifestazioni hanno eroso la credibilità e il già scarsissimo consenso del governo del presidente Enrique Peña Nieto, eletto nel 2012, che, tra le altre cose aveva garantito a inizio 2016: «con me presidente non ci sarà mai un gasolinazo», per poi contraddirsi il 17 dicembre, annunciando la necessità di «riequilibrare il prezzo dei combustibili» per «fattori esterni».
Nei giorni scorsi, in una capitale paralizzata, si è svolta anche una protesta pacifica della società civile, senza bandiere di partiti o di sindacati, guidata, fra gli altri, dal difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde. «La gente è al limite» ha detto il sacerdote, «la società è disperata di fronte a una classe politica tanto corrotta, insensibile e cieca da non essere nemmeno in grado di calcolare la dimensione di questa protesta sociale». I rincari della benzina e dell’elettricità non hanno fatto altro che esasperare la sfiducia nei confronti dell’attuale governo, travolto nel 2016 da scandali, corruzione e mosse poco comprensibili come l’invito in Messico da parte di Enrique Peña Nieto del futuro presidente Usa Donald Trump particolarmente disprezzato nel Paese per i suoi frequenti attacchi nei confronti dei messicani e per la sua volontà di costruire un muro lungo il confine che, secondo lui, dovrebbe essere pagato dal governo messicano.
Padre Alejandro ha accusato anche il governo di essere dietro le quinte degli atti vandalici e ha parlato di «una strategia del governo per screditare la manifestazione, «per intimidire, infondere paura, confondere la gente». Non sarà la violenza a far cambiare le cose, ha detto il sacerdote, ma l’organizzazione della gente: «Per prima cosa serve che la gente prenda coscienza, poi che si organizzi. Dobbiamo creare una strategia di coordinamento nazionale capace di esigere i diritti. Ci organizziamo per il rispetto dei diritti umani ma anche per il cambiamento, per la disobbedienza civile, perché è un nostro diritto di fronte a un governo come quello che abbiamo». Padre Alejandro ha usato parole dure nei confronti del presidente messicano: «È una persona che non sa quello che sta dicendo» ha detto in un’intervista. «I suoi messaggi dimostrano che è completamente staccato dal popolo. Non parla ascoltando il suo popolo, perché non gli importa nulla della gente, gli importa della marco-economia, del capitale finanziario, degli Stati Uniti».