Il Paese centramericano recentemente al centro del caso dei Panama Papers è tra gli Stati più in crescita di tutta l’America Latina. Dal boom economico è però escluso il mezzo milione di indigeni che abita Panama, il cui tasso di povertà sfiora il 70%. Ma la loro ricchezza non si misura solo con il PIL
Sono passate solo poche settimane dalla pubblicazione dei Panapa Papers, i famosi documenti trafugati dallo studio legale Mossack Fonseca che inchiodano 214mila società offshore di mezzo mondo e rischiano di rovinare la reputazione a capi di Stato, sportivi e celebrità, tutti attratti dai benedici fiscali dello Stato centramericano in ascesa economica.
Già, perché – secondo i dati della World Bank del 2014 – l’economia di Panama è una di quelle più in crescita di tutta l’America Latina e può contare su un PIL in aumento del 6,2%. Il merito del miracolo produttivo nel Paese è soprattutto dovuto ad alcuni lavori infrastrutturali quali l’espansione del canale di Panama che ha richiesto ingenti investimenti stranieri.
Ma se l’ascesa economica è innegabile come simboleggia anche Panama City che, con i suoi grattacieli si sta trasformando rapidamente in una città occidentale, un bel reportage di Al Jazeera racconta il lato opposto della medaglia.
Della strabiliante fortuna di Panama, infatti, beneficia ben poco la popolazione locale e ancor di meno gli abitanti indigeni che secondo l’International Work Group for Indigenous Affairs sono mezzo milione, ovvero circa il 12,7 per cento della popolazione totale del Paese. Sono loro – dice uno studio firmato dalla Banca mondiale – non solo a trarre minor profitto dalle crescite economiche ma quasi quasi a farne le spese in termini di povertà.
Tra le sette diverse tribù indigene di Panama il tasso di povertà è oltre il 70 per cento. La maggior parte di loro infatti vive in aree rurali, senza accesso all’acqua potabile e in precarie condizioni igieniche. Quelli che invece si sono trasferiti in città spesso sono sottopagati come spiega ad Al jazeera Osvaldo Jorda dell’ Alianza para la Conservacion y el Desarrollo: «C’è un pregiudizio e discriminazione nei confronti degli indigeni presso la popolazione latina. Alcuni credono che gli indiani siano meno intelligenti».
Ad alcune comunità indigene – come gli Embera o i Cuna – il governo ha riconosciuto la “comarca indigena” ovvero la sovranità amministrativa e giudiziaria sui propri territori, altre invece stanno ancora lottando come nei caso dei Ngobe, il gruppo indigeno maggioritario a Panama, che sta trattando per l’autonomia con il governo che su quei territori ha però interessi energetici. Nel 2011, per esempio, la costruzione di una diga nella zona di Boca del Toro ha sommerso abitazioni e campi di abitanti Ngobe e sulla questione è ancora aperta una controversia.
Nonostante questo quadro, però, gli indigeni non si considerano poveri o emarginati. La loro ricchezza deriva da un profondo legame con la natura, che non può essere misurato con i contatori economici occidentali. Mark Camp, direttore di una Ong che si spende per i diritti degli indigeni del mondo, spiega: «Certamente è vero che guardando gli indici di ricchezza e povertà, gli indigeni sono sempre nelle ultime posizioni. Ma essi si sentono offesi da queste classifiche perché viene giudicata la loro ricchezza solo con standard occidentali».
«Vogliamo mantenere la nostra cultura, la nostra lingua e il legame con la natura. Ma questo non significa rigettare la modernità e la tecnologia – spiega il 25enne indigeno Camp – Abitare qui non significa dimenticarsi il cellulare o Facebook. La differenza rispetto a chi vive in città è che siamo più liberi».