Minacciati dalla globalizzazione e da politiche discriminatorie, i popoli indigeni cercano oggi un riscatto. Anche nella Chiesa. Per essere veri protagonisti di un “altro mondo possibile”
Da più parti, in tutta l’America Latina, stiamo assistendo all’irruzione dei popoli indigeni sulla scena socio-politica ed ecclesiale dopo secoli di emarginazione e di occultamento della loro storia e identità di abitanti originari della “Patria Grande” o “Pachamama”. È così che, nelle lingue indigene, viene indicata quella fascia di terra che va dal Rio Bravo in Messico alla Terra del Fuoco, nella Patagonia argentina. È un “segno dei tempi” che questi popoli che portano ancora le ferite della “Conquista” e che nel corso degli ultimi cinquecento anni hanno dovuto subire l’umiliazione di essere catalogati come invisibili e insignificanti, adesso assumano un ruolo da protagonisti sia nelle Costituzioni politiche di molti Stati sia nella Chiesa. Finalmente sono ascoltati e le loro proposte sono inserite nei programmi pastorali di rinnovamento nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II e Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), che hanno preso sul serio la ricchezza della loro “alterità” e identità culturale e spirituale (come nella Conferenza di Aparecida del 2007).
Alcuni governi in America Latina sono a guida indigena e hanno resistito all’impatto di una globalizzazione a senso unico, che molto spesso si traduce nella confisca di interi territori abitati da popolazioni originarie e impone ai politici locali programmi di sviluppo che distruggono le loro terre, costringendo migliaia di persone, soprattutto giovani, a emigrare o a ingrossare le file degli esclusi e dei cartoneros nelle periferie delle grandi megalopoli, come Città del Messico o Acapulco.
Si calcola che in tutta l’America Latina gli indios siano circa 60 milioni distribuiti geograficamente tra le foreste dell’Amazzonia, gli altipiani delle Ande e il Centroamerica. In Messico, dopo il ritorno al potere del Partito della rivoluzione istituzionale (Pri) nel 2012 – che aveva dovuto cedere il testimone per più di un decennio ai governi del Partito dell’alleanza nazionale (Pan) -, la questione indigena è tornata all’ordine del giorno nell’agenda politica con il riproporsi della negazione dei diritti fondamentali a terra, acqua, assistenza sanitaria, educazione, demarcazione dei propri territori, come ancora si verifica nella maggior parte degli Stati federali. Inoltre, continua imperterrita una politica assistenzialista che non tiene conto delle autentiche richieste dei popoli indigeni e delle loro cosmovisioni in fatto di organizzazione politica e sociale.
Questi popoli infatti sono fatti degni dell’attenzione nazionale e internazionale al massimo come elemento folcloristico, mai come soggetti di processi condivisi di sviluppo equo e solidale dal basso. Basti pensare che solo nello Stato del Guerrero, dove il Pime è presente nella parrocchia mixteca della Concordia – e dove si concentra il più alto numero di popoli originari (tlapaneco, mizteco, náhuatl), sono stati assassinati centinaia di leader indigeni che chiedevano il riconoscimento dei diritti fondamentali dei loro popoli a vivere sulle terre dei loro avi.
I progetti faraonici delle grandi dighe condotti dalle multinazionali con il consenso e la complicità dei politici locali o il tentativo da parte dei cartelli della droga di coltivare l’amapola sulle grandi distese degli altipiani indigeni stanno innescando delle risposte di protagonismo indigeno non sempre ascoltate dalle autorità che sfruttano il voto indigeno per i propri interessi politici. Le stesse polizie indigene (policias comunitarias), che si sono andate diffondendo in Messico a partire dall’originario principio della difesa del territorio, rischiano di essere inquinate dalla corruzione dei partiti e dalle infiltrazioni della delinquenza organizzata. Tra i 43 studenti fatti sparire nel nulla dai narcos nel 2014, con la comprovata complicità di alti quadri dello Stato, c’era anche un parrocchiano del Pime, Felipe, abitante di una delle comunità mixteche della parrocchia, che era andato a studiare nella scuola di Ayotzinapa. Il loro genocidio è l’emblema dello sgretolamento dello Stato di diritto, della corruzione altissima e della mancanza di democrazia e di diritti umani in un Paese a maggioranza cattolica e con una Costituzione tra le più avanzate del mondo.
Ma le popolazioni indigene rappresentano anche una sfida e una risorsa per tutta l’umanità. Attualmente in America Latina si trovano a un crocevia storico: o soccombere per sempre, schiacciati dalla “modernità” galoppante che li nega e li esclude, o arrivare a essere il seme di vita di una nuova presenza umana nel futuro. Per questo motivo, molte sfide pesano sui popoli originari e quasi tutte interpellano anche coloro che solidarizzano con la loro causa. È il caso di noi missionari, che li serviamo a partire dalla pastorale indigena della Chiesa e dell’evangelizzazione incarnata.
La vita delle comunità indigene è minacciata oggi dall’imposizione di un modello di società che pone il lucro e il denaro al di sopra del valore umano e crea forme di esclusione specialmente dei poveri, che non hanno “valore” secondo la logica del mercato. Questa situazione pone molti interrogativi che devono interpellare le coscienze civili e religiose perché toccano questioni che colpiscono l’essenza stessa della convivenza umana.
Come missionari ci chiediamo come fare per creare e rafforzare le forme proprie di produzione, commercializzazione, raccolta e consumo delle comunità in vista della loro autosufficienza economica, garanzia di sopravvivenza, ma anche di realizzazione dei desideri di vita di questi popoli. È un fatto innegabile che nelle nostre comunità indigene sono più quelli che se ne vanno che quelli che restano (quasi sempre ammalati, anziani e bambini). Lo spopolamento dei territori ancestrali ha dimensioni simili a quello avvenuto immediatamente dopo la conquista di cinquecento anni fa. Questo fenomeno ha effetti negativi sull’integrazione familiare, sociale, culturale e religiosa sia di quelli che emigrano che di quelli che restano. Che fare, allora, per impedire che molti emigrino, offrendo loro alternative con progetti di autosufficienza alimentare e per accompagnare quelli che escono per difenderli dai pericoli che li minacciano lungo il cammino e nei punti di arrivo?
Abbiamo visto che un buon numero di membri delle comunità indigene in questi ultimi anni è stato impiegato dai poteri criminali nel traffico di stupefacenti, con la conseguente degradazione morale del mondo indio a tutti i livelli. Molte comunità sono obbligate ad armarsi per difendere gli interessi delle mafie e dei cartelli della droga. Le carceri federali sono piene di indigeni che ingenuamente o volutamente si sono messi nel narcotraffico. Questa è una delle “ingerenze” più nocive che trasforma gli indios “antropologicamente”, obbligandoli a mettersi al servizio della morte.
Insieme alla Chiesa locale i missionari hanno studiato progetti di economia solidale autogestita, alternativi alla narco-economia, riutilizzando i territori comunitari a scopo produttivo, ricostruendo il tessuto sociale e diffondendo una cultura di pace. Un’altra sfida richiamata anche nell’ultimo Congresso americano missionario in Venezuela nel 2013 (Cam 4 – Comla 6) è la pluri-culturalità delle società latinoamericane. Il futuro prossimo non è solo dei popoli originari, ma di una pluralità di lingue, culture e modi differenti di concepire il mondo e la vita. La pluralità presuppone rispetto, convivenza e dialogo interculturale per cui ben pochi sono preparati. Sarà lavoro di tutti, ma specialmente della Chiesa missionaria, aiutare a superare modelli di mono-culturalità ed educare a una “convivialità delle differenze”, come diceva don Tonino Bello. Inoltre, noi missionari saremo sempre di più chiamati anche a valorizzare l’identità/alterità dei popoli indigeni, attraverso l’apprendimento e l’insegnamento delle lingue locali, l’inculturazione del Vangelo e la traduzione della Bibbia negli innumerevoli idiomi nativi, così da costituire autentiche Chiese autoctone in comunione con la Chiesa universale.
È una sfida enorme che, come missionari del Pime, vogliamo affrontare e rilanciare, riproponendo una formazione indigena intra-ecclesiale che faccia di laici, catechisti, giovani e operatori pastorali dei veri soggetti di una nuova evangelizzazione integrale che tenga conto anche degli apporti culturali delle culture originarie a una società giusta e solidale. In questo senso sarà importante l’apporto delle cosmovisioni comunitarie indigene per recuperare il bene comune, la difesa della vita e dell’ambiente e il riscatto degli ultimi, nella costruzione del Regno di Dio. La pastorale indigena del XXI secolo è chiamata a mettere al centro coloro che, in prima persona, dovranno essere i veri protagonisti di un “ altro mondo possibile” e di una “utopia alternativa”: ovvero la costruzione di una società e di una politica organizzate non sul metro dell’individualismo e dell’utilitarismo – che produce l’arricchimento di pochi -, ma sul registro dei valori comunitari e di saggezza ancestrale finalizzati al raggiungimento del bene di tutti. Con un occhio di riguardo per i più “piccoli” e per la Madre Terra che “ci alimenta e ci sostiene”, come ha ricordato anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.