Dopo sant’Oscar Romero, il 22 gennaio il Salvador avrà altri quattro nuovi beati uccisi negli anni drammatici della guerra civile. Tra loro anche due laici locali e il francescano trevigiano Cosma Spessotto
«Nella motivazione dell’amore non può rimanere assente la giustizia, non ci possono essere vera pace e vero amore sulle basi dell’ingiustizia, della violenza, degli intrighi. Il vero amore è quello che ha portato Rutilio Grande alla morte insieme a due contadini. Così ama la Chiesa, muore con loro e con loro si presenta alla trascendenza del cielo».
Aveva da appena tre settimane assunto la guida dell’arcidiocesi di San Salvador, monsignor Oscar Arnulfo Romero, quando si trovò a pronunciare queste parole ai funerali dell’amico padre Rutilio Grande. Il gesuita che aveva voluto accanto a sé come cerimoniere il giorno dell’inizio del suo ministero, il 17 febbraio 1977 era diventato il primo prete a essere colpito dagli squadroni della morte. Caduto insieme all’anziano catechista Manuel Solórzano e all’adolescente Nelson Rutilio Lemus mentre rientravano in auto dalla celebrazione di una Messa.
Cominciò probabilmente quel giorno il martirio di “san Romero delle Americhe”, l’arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare il 24 marzo 1980 e proclamato poi santo da Papa Francesco nel 2018. Ma ora anche padre Rutilio, Manuel e Nelson stanno per essere indicati ufficialmente dalla Chiesa come testimoni del Vangelo fino al dono della propria vita. Verranno infatti beatificati il 22 gennaio a San Salvador, insieme al francescano italiano padre Cosma Spessotto, ucciso il 14 giugno 1980, poche settimane dopo monsignor Romero, nella nazione dell’America Centrale precipitata nel baratro. Anni drammatici in cui questo Paese poverissimo finì dilaniato dallo scontro tra l’estrema destra – che con l’appoggio dell’esercito voleva perpetuare un sistema economico profondamente ingiusto, fondato sullo sfruttamento del lavoro dei campesinos – e la guerriglia comunista.
Perché tornare ai fatti di quarant’anni fa in un Paese come il Salvador, oggi alle prese con ferite non meno gravi: la povertà ancora dilagante, le conseguenze della pandemia, la violenza delle bande giovanili, l’emigrazione di tanti salvadoregni che ripongono nelle carovane in marcia verso i muri dell’America la speranza di un futuro migliore?
Innanzitutto per ricordare che il martirio di monsignor Romero non fu un fatto isolato. «Ci sembra provvidenziale – hanno scritto i vescovi del Salvador in una lettera in vista di questa beatificazione – poter venerare insieme un gesuita salvadoregno, un francescano italiano e due laici del nostro popolo, un giovane e un anziano, accomunati tutti dal fatto di aver versato il proprio sangue per Cristo in mezzo al fragore della guerra. Una guerra che molti ormai non hanno vissuto e molti di più non vorrebbero conoscere ed esaminare alla luce della fede». «I nostri martiri – scrivono ancora i vescovi del Salvador – sono testimoni credibili di una Chiesa in uscita, una Chiesa compassionevole e misericordiosa, una Chiesa che annuncia con parole e opere il Regno di Dio che si fa presente in Gesù Cristo e nel suo messaggio». Guarda dunque al “qui e ora” il messaggio dei quattro nuovi martiri del Salvador. Con la loro vita e la loro morte ricordano che «l’amore verso Dio si esprime nell’amore al prossimo più bisognoso, così come attraverso la lotta per costruire relazioni di fraternità basate sulla verità, la giustizia, la riconciliazione e il perdono».
E’ il filo rosso che scandì la vita di padre Rutilio Grande: nato in una famiglia povera a El Paisnal nel 1928, entrato giovanissimo tra i gesuiti, dal 1965 era stato un formatore nel seminario diocesano di San Salvador. Proprio lì – negli anni del Concilio Vaticano II e dell’Assemblea della Chiesa latino-americana a Medellin – si era posto la questione di come tradurre “l’opzione preferenziale per i poveri” in uno stile di vita sacerdotale.
Padre Rutilio Grande «non voleva seminaristi sottomessi alla sua autorità, ma responsabili e maturi – ha scritto il teologo padre Rodolfo Cardenal, il suo maggiore biografo -. Aspirava a formare sacerdoti al servizio della gente, non capi tribù clericali. Questo desiderio lo portò a lottare per aprire il seminario alla realtà salvadoregna. I seminaristi dovevano uscire dall’edificio e la realtà doveva entrare nelle sue aule e nei suoi corridoi. Durante le vacanze organizzava missioni popolari con i seminaristi maggiori. Non si trattava solo di predicare, ma di imparare a conoscere il popolo da cui provenivano e che erano destinati a servire».
Questo stile gli provocò contrasti all’interno del seminario che lo portarono nel 1972 ad abbandonare il suo incarico. Ma per molti sacerdoti che aveva formato (e per monsignor Romero stesso) restò un punto di riferimento. Da parte sua padre Rutilio continuò il suo apostolato nella missione di Aguilares, una frontiera rurale tra i campesinos. Un luogo molto esposto, dove il gesuita – pur avendo cura nel tener distinto l’ambito politico dalla vita ecclesiale – non mancò mai di schierarsi apertamente dalla parte degli oppressi.
Quattro giorni prima di essere ucciso pronunciò un’omelia che è rimasta il suo testamento: «Sono convinto – disse – che presto la Bibbia e il Vangelo non potranno più attraversare i nostri confini. Ci lasceranno solo le copertine, perché ogni loro parola è sovversiva. E credo che lo stesso Gesù, se volesse attraversare il confine di Chalatenango (la frontiera con l’Honduras, ndr), non lo lascerebbero entrare. Accuserebbero l’Uomo-Dio, il prototipo dell’uomo, di essere un sobillatore, uno straniero ebreo, che confonde il popolo con idee strane ed esotiche contro la democrazia, cioè contro la minoranza dei ricchi, il clan dei Caini. Fratelli, senza dubbio, lo inchioderebbero nuovamente alla croce».
Fu proprio la morte di padre Rutilio Grande a “convertire” monsignor Romero, come molti hanno scritto in questi anni? Lo studio più approfondito della figura dell’arcivescovo martire mostra che non ci fu realmente un prima e un dopo: l’attenzione agli ultimi fu sempre una costante nella vita di Romero. Certamente l’uccisione dell’amico gesuita segnò profondamente l’inizio del suo cammino di arcivescovo; ma più che una “svolta” fu un’ulteriore presa di coscienza.
Egualmente fedele al Vangelo in un contesto segnato dalla violenza, ma con un tratto umano molto diverso, fu anche padre Cosma Spessotto. Nato nel 1923 a Mansuè (Tv) nella diocesi di Vittorio Veneto, frate minore ordinato sacerdote nel 1948, aveva sognato di partire per annunciare il Vangelo in Cina. A causa delle difficoltà politiche la sua destinazione missionaria diventò invece la parrocchia di San Juan Nonualco, nel dipartimento di La Paz in Salvador. E per quasi trent’anni – in una terra a parole già cristiana, ma afflitta da tante povertà materiali e spirituali – non aveva risparmiato energie, ingegnandosi persino nell’introdurre la coltivazione della vite così cara alle sue terre d’origine.
Padre Spessotto non era un teologo: fu semplicemente un sacerdote che stava tra la gente. E quando il Paese precipitò nella guerra civile andò avanti sulla strada sempre seguita: servire i più poveri e i più deboli. Non fu mai un attivista politico, non appoggiava né i guerriglieri, né i militari, ma ricercava il dialogo e la riconciliazione tra le parti evitando strumentalizzazioni. La sera in cui fu ammazzato, il 14 giugno 1980, padre Spessotto aveva celebrato una Messa in suffragio di un giovane universitario, ucciso una settimana prima dai militari. Due uomini armati lo colpirono a morte mentre si trovava in chiesa da solo a pregare davanti al tabernacolo.
Non era un ingenuo: «Ho il presentimento – aveva scritto qualche giorno prima – che da un momento all’altro persone fanatiche mi possano togliere la vita. Il Signore, nel momento opportuno, mi conceda la forza per difendere i diritti di Dio e della Chiesa. Già da questo momento, perdono e domando al Signore la conversione degli autori della mia morte». Monsignor Antonio Cunial, che nel 1980 era vescovo della diocesi di Vittorio Veneto, commentò la sua morte: «Padre Cosma Spessotto non fu santo perché martire, ma martire perché santo».
Da questi volti diversi della santità riparte oggi il Salvador. Dicendo al mondo che anche nel tempo più difficile è possibile vivere fino in fondo la fraternità. MM