Da Gromo San Marino (Bg) alle Ande: la storia e la memoria del primo fidei donum italiano che oggi a Chimbote viene proclamato beato. Fu ucciso il 26 agosto 1991 in Perù dai maoisti di Sendero «Luminoso»
Sugli altari laterali delle chiese di campagna fanno sempre bella mostra dipinti e statue di santi dagli abiti colorati e dall’espressione un po’ ingenua. Madonne e sacri cuori poi fanno da contorno e quasi da custodi. Una santità poco umana e sfaticata, molto celestiale e astratta; forse per indicare a generazioni d’altri tempi che bisogna sempre guardare ed aspirare lassù.
Le cose torneranno invece presto a dimensione reale e quotidiana nella piccola chiesetta di Gromo San Marino, alta Val Seriana, provincia di Bergamo. L’altare laterale sinistro ospiterà dal 5 dicembre una modesta raffigurazione di un prete di media statura in sandali e sombrero, battezzato nel 1931 nella stessa chiesa e morto nel 1991 sulle montagne di Chimbote in Perù. Morto ammazzato dai militanti di Sendero Luminoso come un paio di settimane prima nella stessa zona due giovani francescani polacchi. La condivisione della Parola di Dio nelle comunità, le attività di promozione umana, gli aiuti della Caritas a dire dei maoisti “addormentavano” le coscienze ed impedivano la rivoluzione armata contro il regime locale e l’imperialismo yankee: lo avrebbe confessato una decina d’anni dopo in carcere al vescovo Luis Armando Bambarén il fondatore del movimento Abimael Guzmàn. La Chiesa non ha avuto particolari difficoltà a riconoscere nei tre sacerdoti dei martiri “in odio alla fede”.
Il dinamico parroco di Gromo San Marino, don Ruben Capovilla, che in una di queste giornate assolate scambio in un primo tempo per uno dei giovani della parrocchia, mi indica a distanza, nella contrada Grabiasca, la casa natale di don Sandro Dordi, il beato martire in questione. Sono ancora viventi ben sette tra i fratelli e le sorelle che raggiunsero l’età adulta. Se ne sono andati solo don Sandro (ma fu portato via), che era il secondo, nel 1991 ed il primogenito Gianmaria una decina d’anni fa. Amabile Dordi, tradizionalmente il più vicino al fratello missionario, rappresenterà la famiglia alla cerimonia di beatificazione a Chimbote.
Nel piccolo cimitero di Gromo San Marino, dietro la chiesa, don Sandro riposa nel loculo al livello del pavimento sul lato sinistro della cappella di famiglia. Fu portato qui una settimana dopo l’agguato mortale. Resterà qui perché non c’è consenso unanime nella famiglia circa il trasferimento delle sue spoglie in Perù in connessione con la cerimonia di beatificazione.
Forse è meglio così. Il paese, la valle, la diocesi di Bergamo almeno non perderanno la memoria di lui in un tempo in cui di santi si sente fame e sete. “Don Sandro è una persona da riscoprire – dice don Ruben -; non è molto conosciuto nemmeno al suo paese”. Vorrei vedere! Se n’è andato a dieci anni in seminario, prima a Clusone, non troppo lontano, ma ben confinato alla disciplina e agli studi, poi a Bergamo. E’ tornato per la Prima Messa nel 1954 ed è rimasto a casa meno di un mese. Da seminarista aveva già deciso che per lui i confini della diocesi di Bergamo erano troppo stretti e la pastorale nei paesini allora troppo ordinaria e scontata. Sapeva anche che il suo animo era quello del prete, ma anche del laico; dell’uomo di chiesa, ma anche del lavoratore manuale; del pastore dedicato al suo gregge, ma interessato di più alle pecore fuori che a quelle che dentro.
Diventare prete, entrare nella Comunità del Paradiso (missionari diocesani) e partire per il Polesine comunista ed infangato dalla recente alluvione fu quindi per lui una cosa sola nel 1954. Né sarebbe tornato a Bergamo alla fine dell’esperienza veneta nel 1969. Accetterà infatti per un decennio la Svizzera dei migranti italiani e delle fabbriche di orologi. Nel senso che si fa presto assumere da una ditta di Le Locle, presso Friburgo, e diventa prete operaio. Sperimenta la vita di lavoro dei suoi fedeli. Riempie il tempo libero dalle attività pastorali, quando tutti in settimana sono comunque in fabbrica. Si ritrova uno stipendio da reinvestire in attività sociali e casi di bisogno.
Al termine dell’esperienza svizzera nel 1979 la cinquantesima primavera non è più molto lontana. Venticinque anni di sacerdozio sono passati. Tornare ora in diocesi o mai più. Rientrare nei ranghi ed organizzarsi per una terza ed ultima fase di ministero ancora fecondo, ma anche garantito, o spingere l’acceleratore sulla missione. Una decisione non facile. C’è qualcosa di psicologico e di razionale insieme nell’animo bergamasco, soprattutto delle valli, che percepisce nelle mezze misure qualcosa di detestabile e quasi ne prova vergogna.
Don Sandro fa i suoi conti con realismo, parla con delle persone, pensa e fa dei viaggi di ricognizione. Ma dentro la decisione è presa. Il vescovo Mons. Giulio Oggioni cerca di riorganizzare le missioni diocesane e le partenze, un po’ libere e all’arrembaggio nella prima fase dopo il Concilio Vaticano II, ma per don Sandro dovrà ancora accettare un compromesso. Il sacerdote avrà la benedizione del vescovo, ma andrà a Chimbote in Perù. Non ci sono preti bergamaschi, ma il vescovo Bambarén lo ha richiesto insistentemente dopo una breve visita. Si occuperà di contadini sfiduciati, di donne sfruttate e di giovani senza futuro. In un clima secco e su strade polverose. Senza orari e senza orologi come in Svizzera. Resistendo a tutto fuorché all’ideologia che classifica e uccide. Sarà un prete fidei donum, dal nome dell’enciclica con cui il Papa Pio XII spronava i preti diocesani a partire per le missioni e pubblicata proprio nell’anno di ordinazione di don Sandro nel 1954.
Quella partenza e quella scelta di posto, insieme alla decisione di non mollare nei giorni finali (“non posso lasciare ora la mia gente”) quando la minaccia di Sendero era ormai fin troppo chiacchierata, fanno ora di Don Sandro Dordi il primo sacerdote fidei donum ed il primo sacerdote bergamasco, in una storia bimillenaria, ad essere riconosciuto come martire e salire, come si dice, agli onori degli altari; ucciso lui, don Alessandro, il 25 agosto 1991, vigilia dell’annuale Festa di Sant’Alessandro, patrono della città e della diocesi.
Un altarino molto piccolo, come si diceva, quello della sua chiesa a Gromo San Marino. Oggi non si invocano più tanto i santi come intercessori e procuratori di prodigiose guarigioni fisiche. Nel caso di don Sandro e quelli come lui va forse chiesta la grazia di conservare e sviluppare nei giovani della sua valle e dell’Italia intera la passione per la missione, il servizio, il dono di sé, l’accoglienza, il non dire mai che la vita è finita, ma che c’è sempre la possibilità di una nuova tappa e lo spazio per una nuova sfida. Non c’era tanto bisogno di conoscere don Sandro da vivo. C’è bisogno di conoscerlo da morto. O meglio da martire. Al suo paese e altrove.