Lavarsi le mani è la precauzione numero uno da adottare in tempi di Covid-19. Ma che si fa se l’epidemia arriva in zone dove l’approvvigionamento idrico è nullo o intermittente? Proprio nella Giornata mondiale dell’acqua che si celebra oggi, il racconto della drammatica situazione in El Salvador
Si fa presto a dire lavatevi le mani se dal rubinetto non esce nemmeno una goccia d’acqua. Mentre in questi giorni sentiamo continui appelli a seguire la più basilare delle raccomandazioni igieniche, non abbiamo forse pensato che in certe zone del mondo persino rispettare una misura così semplice (ma a detta degli esperti estremamente protettiva) potrebbe essere problematico. Oggi – che si celebra la Giornata mondiale dell’acqua – è un buon momento per farlo.
Uno dei Paesi che deve fare i conti con il Coronavirus e l’inadeguato approvvigionamento idrico è El Salvador. Qui l’epidemia è arrivata intorno al 10 marzo e fin da subito il governo – diffondendo messaggi su tutti i mezzi di comunicazione – ha chiesto ai cittadini di mantenere la distanza di sicurezza, disinfettare le superfici e lavarsi le mani. Tutte cose giuste ma difficili da applicare visto che molte zone del Paese sono frequentemente colpite da crisi idriche.
Un bel reportage di qualche giorno fa ha spiegato la situazione del Paese sudamericano nell’affrontare l’emergenza raccontando la storia di un’infermiera impegnata nel Saldaña Hospital a San Salvador, l’unico centro specializzato in pneumologia e tra i più efficienti a livello nazionale, che in questo periodo si è attrezzato per curare l’infezione.
In corsia si indossano mascherina e guanti e si segue alla lettera il protocollo sanitario ufficiale per l’emergenza Coronavirus che prevede pure che alla fine del turno ogni infermiere disinfetti a casa la divisa e le scarpe da lavoro immergendole in un secchio di acqua e candeggina. Già, peccato che – racconta l’infermiera del Saldaña Hospital – quando il presidente ha imposto la quarantena nazionale dal rubinetto di casa sua non usciva nemmeno una goccia già da due settimane… Quella della donna che abita a San Ernesto, un quartiere popolare del comune di Soyapango nel dipartimento della capitale, non è sicuramente un caso isolato. Moltissimi operatori sanitari infatti risiedono nelle zone periferiche della metropoli dove gli affitti sono più bassi.
Gli infermieri dunque si arrangiano come possono, lasciando le scarpe fuori di casa chiuse in un sacchetto di plastica in attesa che l’acqua riprenda a scorrere giusto il tempo per lavare qualche vestito. A San Ernesto, per esempio, l’acqua è tornata il 14 marzo soltanto per poche ore e da gennaio la rete idrica funziona a singhiozzo per colpa di un malfunzionamento dell’acquedotto che ha penalizzato l’approvvigionamento di chi abita nei quartieri più poveri della città. Il problema è comunque diffuso anche altrove: secondo le Nazioni Unite in El Salvador sono circa 600mila le persone che non hanno accesso regolare all’acqua pulita.
Anche quando i rubinetti funzionano, poi, le persone riutilizzano l’acqua adoperata per lavarsi le mani o igienizzare la biancheria. Non potendo pulire i piatti, a San Ernesto si comprano piatti usa e getta e per cucinare si fa ricorso all’acqua in bottiglia, una spesa non indifferente per le famiglie che possono permetterselo (lo stipendio medio è di 300 dollari al mese) e che diventa insostenibile per i due milioni di salvadoregni che vivono sotto alla soglia di povertà.
Questi numeri – che pure si conoscono da anni – sono diventati quanto mai problematici e oggi, in piena emergenza sanitaria, fanno davvero paura: come si potrà contrastare l’epidemia se le persone non hanno nemmeno l’acqua per lavarsi le mani?