«Con la recente ondata di violenza le bande hanno dimostrato al governo il proprio potere, ma i disordini qui non sono una novità», racconta Andrea Cianferoni di Cefa, spiegando come la ong bolognese crei alternative di sviluppo per i giovani
«I gravi disordini di gennaio in Ecuador purtroppo non hanno rappresentato per noi una novità assoluta: da qualche anno la situazione nel Paese sta degenerando, tra assalti a centri commerciali, minacce di atti terroristici, omicidi. Credo che la recente ondata di violenza costituisca una strategia delle bande per cercare di creare il caos e dimostrare al governo il proprio potere». Parla così da Quito Andrea Cianferoni, da diciotto anni in Ecuador dove coordina i progetti di Cefa, organizzazione non governativa bolognese che da mezzo secolo aiuta le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare e il rispetto dei diritti fondamentali.
Negli occhi del cooperante traspare l’amarezza di chi ha visto un Paese crescere economicamente, diventare quasi un modello di sviluppo a livello regionale e poi, negli ultimi sei anni, cadere a picco. Lo stato di emergenza proclamato per sessanta giorni dal presidente Daniel Noboa l’8 gennaio dopo l’evasione dal carcere di Guayaquil di José Adolfo Macías Villamar, detto “Fito”, leader del gruppo criminale “Los Choneros”; il coprifuoco notturno e poi la dichiarazione di un “conflitto armato interno” sono stati la punta dell’iceberg in una nazione in cui il concetto di tranquillità è relativo. La presenza delle bande è molto forte e, spesso, non lascia intravedere ai giovani altre opportunità se non quella di farne parte.
Qual è la situazione nel Paese in questo momento?
«All’inizio di gennaio sembrava veramente che fosse scoppiata una guerra: sono stati chiusi i negozi e gli uffici pubblici. La confusione è stata alimentata da notizie che poi, in molti casi, sono risultate non vere. Certo, le scene dell’assalto alla televisione pubblica hanno generato preoccupazione, bisogna però sottolineare che quello che è accaduto in quei giorni è stato forse più concentrato, ma di fatto è ciò che noi vediamo nella quotidianità. A poco a poco, siamo tornati alla normalità che esisteva prima degli eventi: i negozi hanno riaperto e quasi tutte le scuole sono tornate in presenza dopo aver fatto lezioni a distanza per qualche settimana. Questa “normalità”, però, non significa sicurezza».
Il presidente Noboa ha ordinato alle forze militari di neutralizzare i 22 gruppi criminali identificati come “terroristi”. Cosa pensa la gente del pugno di ferro delle autorità?
«In questo momento lo Stato sta intervenendo con molte operazioni militari, arrestando persone e sequestrando armi. Molti si chiedono perché queste azioni non siano state intraprese prima. Uno dei problemi principali è che i gruppi criminali diversificano l’attività: oltre al traffico di droga, si dedicano ad estrazioni minerarie illegali (ad esempio, di oro), prostituzione, tratta di persone, traffico di armi. In città, commettono estorsioni: a Quevedo il 40-50% dei negozi ha chiuso per gli avvenimenti degli ultimi mesi e anni. La provincia di Esmeraldas è ormai totalmente in mano alle bande e la presenza dello Stato è molto limitata. A mio parere la gente, in molti casi, si è rassegnata. È contenta degli arresti: anche se personalmente non so dove mettano tutte quelle persone, dato che le carceri erano e sono al collasso. La situazione è complessa: nonostante gli sforzi, gli omicidi e gli scontri tra gang per potere, territorio e mercati continuano. Per generare un cambiamento non basta la forza: serve un programma strutturato e a lungo termine».
I giovani subiscono il fascino della criminalità. Vedono che affiliarsi alle bande genera ricchezza e pensano che questa sia l’unica fonte di guadagno possibile.
«Da vari anni l’Ecuador sta vivendo una crisi economica molto profonda, legata alla situazione internazionale e al livello di debito molto alto lasciato dai governi precedenti. La nazione cresce poco, i disoccupati sono molti e c’è poca industria. Mancano politiche sociali e alternative sostenibili. Molte volte, chi nasce o vive nelle zone più pericolose, come i quartieri marginali delle grandi città, ha come unico modello quello criminale. Un esempio: l’anno scorso ho visto immagini di una festa di Natale con bambini che ballavano e cantavano una canzone inneggiante alla criminalità e facevano dei gesti che richiamavano le bande. Ciò accade perché non hanno altri esempi da seguire, né una struttura d’appoggio che mostri loro un modello diverso».
Le alternative, però, esistono. E Cefa, con i suoi interventi integrali di sviluppo agricolo sostenibile e inclusivo, ne offre alcune.
«Lavoriamo in zone rurali in diverse province del Paese per generare uno sviluppo delle filiere produttive attraverso un approccio integrale. Operiamo con organizzazioni di coltivatori migliorando la produzione attraverso sistemi agroecologici, per esempio le biofabbriche, e aiutiamo le associazioni a potenziare la loro capacità di gestione amministrativa e commerciale coinvolgendo i giovani, così che assumano maggiori responsabilità. Ci occupiamo anche del processamento dei prodotti, per migliorarne la qualità e agganciarli a un mercato. Io ho vissuto tredici anni in Amazzonia: qui, in zone molto sensibili, implementiamo i sistemi di produzione tradizionali delle comunità indigene come quello di tipo chakra. La nostra filosofia è generare capacità, con una particolare attenzione ai giovani e alle donne, sempre un po’ più esclusi dalla parte produttiva, associativa e commerciale».
Collaborate con i governi locali per migliorare le filiere di cacao, caffè, quinoa, platano e manioca: quali risultati state ottenendo?
«Affianchiamo organizzazioni che producono caffè da decenni: anche in questo caso abbiamo coinvolto i giovani, facendoli partecipare a corsi di formazione e programmi di certificazione internazionali. Per le donne abbiamo promosso progetti di micro imprenditoria giovanile, grazie ai quali sono nate imprese già produttive: l’obiettivo è riportare i consumatori a bere il caffè “tradizionale” e non solo quello solubile. Le organizzazioni con cui lavoriamo stanno già esportando caffè tostato nei mercati europei e soprattutto negli Stati Uniti. Anche le barrette di cacao prodotte da alcune delle realtà che appoggiamo stanno sbarcando un po’ in tutto il mondo».
Lo scorso agosto il 60% degli ecuadoriani ha votato lo stop alle trivellazioni petrolifere nel Parco nazionale Yasuní, ma ora il presidente ha proposto una moratoria per continuare l’estrazione: quanto è centrale in Ecuador la questione ambientale?
«Yasuní è un’area di un’importanza ecologica straordinaria e uno dei luoghi con la maggiore biodiversità del pianeta, dove vivono popolazioni non contaminate. Ai tempi dell’ex presidente Correa, si era parlato della disponibilità dell’Ecuador a rinunciare ai pozzi di petrolio, per difendere l’ambiente, in cambio di aiuti internazionali, ma alla fine i donatori non si trovarono e l’esperimento fallì. Così si è cominciato a estrarre il petrolio. Il referendum prevede – in tempi non ben precisati – di non realizzare più attività di esplorazione o perforazione di nuovi pozzi, e di smantellare gli impianti operando una rigenerazione ambientale. Subito dopo la vittoria del “sì”, tuttavia, il predecessore di Noboa, Guillermo Lasso, memore degli investimenti milionari fatti, stava già cercando delle alternative per continuare a estrarre. E ora il presidente propone stato attuale, l’economia del Paese non può fare a meno del petrolio, per cui l’obiettivo è quello di riattivare il settore per aumentare la produzione a mezzo milione di barili al giorno. Con buona pace dell’ambiente».