Il governo Maduro ha già alzato per tre volte nel 2018 il salario minimo. Ma oggi basta già a malapena per comprare in un mese un chilo di pollo e una scatoletta di tonno
Lo scorso 6 gennaio il presidente venezuelano Nicolas Maduro annunciò di aver obbligato, a partire dal giorno seguente, 26 catene di supermercati ad abbassare il costo degli alimentari ai prezzi del mese precedente. All’alba del 7 gennaio, fuori dalle oltre 200 filiali colpite dal provvedimento in tutto il Paese, c’erano già code infinite di persone, compresi anziani e bambini, in attesa dell’apertura dei negozi.
Restare per ore in fila sotto qualsiasi condizione climatica per fare spesa è una condizione a cui ormai i venezuelani sono abituati: da anni ci sono addirittura persone che vivono di questo lavoro, passano cioè la giornata in coda per fare acquisti per gli altri. L’inflazione è però ormai diventata iperinflazione, e, anche a causa della scarsità di prodotti, i commercianti sono costretti ad adeguare i prezzi anche due volte la settimana. Nel solo 2017, il bolivar, la moneta venezuelana, si è svalutata del 98% rispetto al dollaro statunitense, e Caracas si è guadagnata il primo posto nella classifica dei paesi con l’inflazione più alta, 1133%, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, che per il 2018 prevede una crescita inflazionistica oltre il 13000%.
Anche vista l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, il prossimo 20 maggio, Maduro ha da poco approvato un nuovo aumento del salario minimo, che oggi equivale a un milione di bolivares. L’adeguamento del 1 maggio è già il terzo del 2018, il nono dal gennaio 2017, il ventesimo dall’inizio della presidenza Maduro, nel 2013.
Se al salario minimo si somma il sostegno per l’alimentazione, si arriva alla somma di 2,55 milioni di bolivares. Che però oggi bastano appena a comprare un chilo di pollo (1,37 milioni, con pelle e ossa), e una scatoletta di tonno da 140 grammi ( 1,1 milione). Oppure per acquistare 3 rotoli di carta igienica (344mila bolivares l’uno), un chilo di patate (680mila) e 15 uova (44mila l’uno).
Una situazione insostenibile per i cittadini, che il governo ha deciso di affrontare con quella che sembra soprattutto un’operazione più formale che sostanziale: il taglio di tre zeri dalla moneta; una misura, ha assicurato il presidente, che aiuterà a combattere la crisi economica soprattutto per quel che riguarda la scarsità di liquidità. A partire dal 4 giugno la banconota da 10mila bolivares sarà quindi sostituita con quella da 10. Da quello stesso giorno le vecchie banconote non avranno più valore, hanno fatto sapere le autorità, consigliando ai cittadini di cambiare o depositare per tempo tutti i loro averi in banca, per non perdere denaro.
Maduro non è nuovo a politiche di questo tipo: prima di lanciare lo scorso mese il petro, la prima criptomoneta emessa da uno stato, nel dicembre 2016 impose il ritiro improvviso delle banconote da 100 bolivar. L’iniziativa, che nell’immediato ottenne, anche se solo per pochissimi giorni, la rivalutazione della moneta sul mercato internazionale, mandò il paese nel caos, con proteste e negozi saccheggiati.
Gli effetti di questa nuova ennesima manovra monetaria non avranno alcuna conseguenza sulle vicine elezioni presidenziali, in cui il presidente cerca una riconferma, nonostante lo scenario economico disastroso, e un esodo continuo di cittadini che si sta convertendo in crisi migratoria per i paesi che confinano con il Venezuela, soprattutto Colombia e Brasile.
Gran parte dell’opposizione a Maduro propone l’astensione al voto, perché, a suo dire, queste elezioni non sarebbero né giuste né libere. Una tesi condivisa a livello internazionale da molti: tra i Paesi che non riconosceranno il voto ci sono l’Unione Europea, gli Stati Uniti e altre nazioni della regione. Su questa linea anche la Conferenza Episcopale venezuelana: “Non ci sono garanzie di trasparenza e libertà” hanno detto i vescovi in una nota diffusa il 23 aprile, sottolineando come elezioni così concepite possano solo aggravare la crisi nel paese. La richiesta di un rinvio del voto alla fine dell’anno, una proposta sostenuta anche dal Parlamento Europeo, è caduta nel vuoto.