Il premio 2020 per il giornalismo investigativo a un’inchiesta del New York Times che ha svelato come dietro uno dei simboli della Grande Mela si nascondesse una truffa speculativa identica alla bolla immobiliare che nel 2008 innescò la crisi finanziaria globale. Un meccanismo che ha arricchito società finanziarie e mandato sul lastrico centinaia di autisti immigrati
Negli Stati Uniti sono stati annunciati i vincitori del’edizione 2020 del premio Pulitzer, il riconoscimento giornalistico più prestigioso al mondo. E tra gli articoli premiati, proprio in una delle categorie più prestigiose – quella per il giornalismo investigativo – c’è un’inchiesta che parla di uno dei simboli per eccellenza di New York. Ma anche di quante tragedie la finanza facile – nonostante le macerie lasciate dietro di sé dalla crisi sui mutui immobiliari del 2008 – continui a provocare come se niente fosse nell’America di oggi. Senza che le autorità pubbliche muovano un dito per fermarla.
Con un minuzioso lavoro pubblicato sul New York Times Brian M. Rosenthal ha scoperchiato infatti la pentola sulla «bolla dei taxi», cioè i meccanismi speculativi che negli ultimi anni hanno ridotto sul lastrico centinaia di autisti delle mitiche auto gialle, uno dei simboli di New York. Come in tutte le città anche nella Grande Mela il servizio dei taxi dal 1937 è regolato da un sistema che si fonda sulle licenze: averne una significa poter trasportare legalmente i circa 250 mila passeggeri che ogni giorno scelgono questo mezzo di trasporto per spostarsi. Queste licenze sono contingentate e dunque averne la titolarità rappresenta un patrimonio importante.
L’inchiesta del New York Times ha però raccontato come dall’inizio degli anni Duemila in questo settore qualcosa di radicale sia cambiato. Gli eredi dei primi concessionari – che col tempo avevano costituito flotte importanti con autisti alle loro dipendenze – hanno infatti iniziato a pensare che poteva esserci un modo più redditizio per sfruttare quel bene. Non tenere più per sé le licenze, ma orientare piuttosto il proprio business alle attività finanziarie per il prestito di capitali ai nuovi taxisti che coltivavano il sogno di mettersi in proprio. Taxisti che – nella stragrande maggioranza dei casi – erano immigrati giunti dall’Asia (India, Pakistan, Bangladesh) con l’agognata Green Card, il documento che permette di risiedere in maniera permanente e lavorare negli Stati Uniti.
Con una poderosa iniezione di denaro facile è scattata quindi la corsa alla licenza: il valore di mercato della titolarità di un’auto gialla di New York è schizzato alle stelle. Nel giro di pochi anni si è passati da 200.000 a 1 milione di dollari. Soldi che evidentemente i nuovi taxisti non potevano avere cash. Ma bastava un piccolo acconto per ottenere comunque la licenza. E a volte non serviva nemmeno quello. L’altra faccia della medaglia, però, erano cambiali capestro sul debito contratto; con tassi che arrivavano anche al 24% se non veniva ripagato entro tre anni.
L’inchiesta di Rosenthal racconta per esempio la storia di Mohammed Hoque, un cittadino del Bangladesh immigrato negli Stati Uniti con la moglie da Chittagong nel 2004. Lavorava come autista dalle 5 del mattino alle 5 della sera per una società, guadagnando anche 100 dollari al giorno. Finché nel 2014 gli hanno proposto di «mettersi in proprio»; «bastano 50mila dollari», gli hanno detto. Per uno che ne guadagnava in un anno 30mila ed era riuscito a mettere da parte qualche risparmio, la proposta non poteva che suonare allettante, soprattutto se condita con tutta la retorica sul «sogno americano». Così ha scelto l’affare. Pochi mesi prima che – come accade sempre nei meccanismi di speculazione finanziaria – la bolla scoppiasse. Molti dicono che sia stato l’ingresso di Uber – l’app che ha rivoluzionato il trasporto nelle grandi città americane – a far diminuire il volume d’affari del mercato dei taxi e dunque anche il valore delle licenze. Ma la verità – spiega bene l’inchiesta del New York Times – è che le premesse perché la bolla scoppiasse c’erano già tutte prima. Perché i valori raggiunti dalle licenze e i crediti concessi ai taxisti erano insostenibili.
Il risultato è che il signor Hoque in cinque anni ha già pagato 400mila dollari, ma gliene restano ancora 915mila da pagare senza contare gli interessi che col tempo andranno ulteriormente ad aggiungersi. Si tratta di una situazione evidentemente da bancarotta. Ed è la stessa di centinaia di suoi colleghi: ci sono già stati numerosi casi di suicidi tra i taxisti newyorkesi oberati dai debiti. Si tolgono la vita come i contadini indiani; nel cuore della Grande Mela.