Nelle acque statunitensi del Golfo del Messico ci sono più di 14 mila pozzi di petrolio e gas inattivi, che non sono mai stati chiusi. Un rischio enorme per gli ecosistemi marini, ma anche per possibili emissioni di metano. Ma tapparli costa troppo….
Gli Stati Uniti – che contano più di 4.4 milioni di pozzi in tutto il Paese e il cui epicentro delle attività offshore si trova nel Golfo del Messico – sono stati i maggiori produttori al mondo di petrolio e gas nel 2021. Degli 82 mila pozzi perforati nel Golfo del Messico, solo poco più di 5 mila sono ancora attivi e quelli inattivi da più di cinque anni sono oltre 14 mila. Eppure non sono mai stati chiusi.
A scoprirlo è uno studio di Mark Agerton e dei suoi colleghi dell’Università della California che hanno raccolto i dati dell’US Bureau of Safety and Environmental Enforcement sui pozzi statunitensi offshore e nelle acque territoriali degli Stati del Texas, Louisiana e Alabama.
Tutte le perforazioni offshore operano con contratti di locazione governativi; le aziende devono dunque rispettare tutti i requisiti, oltre alle leggi statali o federali. E una volta terminata la produzione, gli operatori sono tenuti a chiuderli con tappi di cemento ricoperti di sedimenti prima di abbandonarli (Plugging and Abandoning – P&A), per evitare fughe di idrocarburi e altri gas e fluidi. Ma la chiusura comporta un costo non indifferente. I ricercatori stimano una cifra attorno ai 30 miliardi di dollari; 7 miliardi solo per quelli in acque poco profonde e vicino alla costa.
Tuttavia, se i produttori si trovano in una situazione economica in perdita o in bancarotta, potrebbero non rispettare le norme e rendere un pozzo “orfano”, cioè «un pozzo il cui precedente proprietario ha abbandonato le operazioni nell’area ed è improbabile che abbia i mezzi finanziari per chiudere e abbandonare il pozzo in maniera appropriata». La causa principale potrebbe essere il fallimento delle società e in questi casi è lo Stato ad assumersi la responsabilità di chiudere e dismettere i pozzi (andando ad aumentare il peso fiscale sui contribuenti). Si stima che il numero di pozzi che sono ad alto rischio di diventare “orfani” è compreso in un range che va da alcune centinaia di migliaia e 3 milioni.
Tutto ciò aumenta i rischi ambientali che variano a seconda della profondità del pozzo e dalla distanza dalla costa. Il rischio è di danneggiare gli ecosistemi marini, ma anche di rilasciare metano che può raggiungere l’atmosfera, contribuendo al surriscaldamento globale. Nelle acque più profonde e più al largo, invece, i ricercatori hanno scoperto che perdite di metano – che vengono consumate soprattutto dai microbi marini – avrebbero più tempo per degradarsi e più opportunità di diluirsi nell’acqua risultando meno tossiche di quelle rilasciate nei pressi della costa.
Sempre secondo i ricercatori, le agenzie statunitensi dovrebbero concentrare gli sforzi sui pozzi in acque poco profonde che rappresentano la maggiore minaccia ambientale e sono i più economici da chiudere per evitare che si verifichino incidenti disastrosi come quello della Deepwater Horizon (nella foto): il 20 aprile 2010, la piattaforma di perforazione petrolifera BP Macondo Prospect, che operava nel Golfo del Messico, è esplosa e affondata, causando la morte di 11 lavoratori e la più grande fuoriuscita di petrolio nella storia delle operazioni di perforazione petrolifera in mare. A differenza di quella perforazione, però, molti dei pozzi non tappati sono stati svuotati e non è chiaro l’impatto che potrebbero avere le molte piccole perdite croniche.
Una legge sulle infrastrutture approvata dal Congresso degli Stati Uniti alla fine del 2021 ha destinato 4,7 miliardi di dollari alla chiusura dei pozzi “orfani” onshore e offshore, ma David Pettit del National Resources Defense Council afferma che «non c’è alcuna possibilità che tutti i pozzi vengano chiusi; non c’è abbastanza interesse amministrativo o denaro».