La questione razziale al centro del film-documentario del regista haitiano Raoul Peck. Che inaugura la 27° edizione del Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano, ponendo alcune domande di fondo, che interpellano anche il nostro Paese e la nostra società sempre più multietnica
«La storia dei neri americani è la storia dell’America. E non è una bella storia». C’è l’America di ieri e di oggi. E c’è soprattutto la questione razziale – irrisolta, drammatica, sfidante ieri come oggi – al centro del film “I’m Not Your Negro”, del regista regista Raoul Peck, presentato ieri sera in anteprima italiana, in occasione dell’inaugurazione della 27° edizione del Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano.
Candidato all’Oscar come miglior documentario, il film ha richiesto almeno dieci anni di lavoro al regista haitiano, e tutta una vita di riflessioni su di sé e sulla questione razziale. Il documentario, infatti, si basa sui discorsi di James Baldwin, intellettuale e attivista americano, vissuto a lungo a Parigi, negli anni in cui l’America era attraversata dalla furia razzista e dalla lotta per i diritti civili degli afroamericani. Lotta che ha avuto tra i protagonisti – e tra le vittime più illustri – tre dei suoi amici: Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King.
«Ho letto Baldwin molto presto, quando avevo circa 18 anni e mi ha cambiato la vita – confessa Raoul Peck al termine dell’affollata proiezione al San Fedele di Milano -. Baldwin mi ha dato le parole per dire quello che sentivo intuitivamente e mi ha dato la struttura per cambiare il mio modo di vedere».
Ora, ammette Peck, «con questo film vorrei che quello che lui ha fatto per me, io possa farlo in qualche modo per le nuove generazioni». Obiettivo raggiunto se, come commenta entusiasticamente il New York Times, «qualsiasi cosa pensiate sul passato e sul futuro di ciò che viene chiamato “relazioni razziali”, questo film vi farà pensare di nuovo e può essere che vi faccia anche cambiare idea».
Al centro, come si diceva, c’è innanzitutto James Baldwin a cui Raoul Peck ha restituito la parola, le immagini, le riflessioni, intrecciandole con un’attualità che sembra riproporre drammaticamente episodi di violenza, esclusione e discriminazione che sembravano relegati al passato. «Oggi sentiamo di nuovo discorsi che pensavamo appartenere a un’altra epoca – commenta amaro Peck -. E li ritroviamo in bocca a persone di potere, come il Presidente Trump, la cui opinione, qualunque sia e su qualunque base sia fondata, ha lo stesso valore del lavoro di quarant’anni di uno scienziato».
Il film ha fatto molto discutere negli Stati Uniti, dove la questione razziale si ripropone oggi sia maniera strisciante e trasversale, sia in episodi di grave violenza. Ma interpella tutti. Il mondo occidentale, in primis, ma anche l’Italia dove sono riapparsi in maniera inquietante discorsi xenofobi se non apertamente razzisti e si diffondono sempre più spesso episodi di intolleranza e di violenza.
«Baldwin con le sue parole ci inchioda a una verità che continua a interpellarci ancora oggi – insiste Peck -. Dopo averle sentite, non possiamo fare finta di niente. O, peggio, far finta di non sapere. Viviamo in un’epoca di grande complessità e confusione, in cui facciamo fatica a ritrovarci. Spero che questo film aiuti almeno a far discutere. Non possiamo restare indifferenti».