Dopo le polemiche ieri Trump si è recato sull’isola devastata due settimane fa dall’uragano Maria. Ma la lentezza della risposta di Washington all’emergenza ripropone la questione di un territorio che fa parte degli Usa, ma non è uno Stato americano. E nel maggio scorso ha dovuto dichiarare bancarotta per i debiti con Wall Street
Ponti crollati, case ed edifici inagibili, lunghe code davanti a farmacie e supermercati vuoti: a due settimane dal devastante passaggio dell’uragano Maria, Porto Rico è ancora in ginocchio. Le preventive evacuazioni di cittadini dalle coste sono servite, ma ci sono comunque state 16 vittime. Maria si è abbattuta sull’isola a due settimane dal passaggio dell’uragano Irma: per le infrastrutture è stato il colpo di grazia. Tra quelle colpite, Porto Rico è l’isola caraibica che ha riportato più danni.
L’acqua ha allagato campagne e interi quartieri. La storm surge, l’onda di tempesta che crea inondazioni, ha raso al suolo interi villaggi e reso inagibili le strade. I venti alla velocità di 257 chilometri orari hanno fatto collassare la rete elettrica, e bloccato il 90% delle comunicazioni: sono caduti 1360 dei 1600 ripetitori. Macerie e immondizie restano ammassate ai lati delle strade; le code ai distributori diminuiscono di giorno in giorno, ma c’è carenza di combustibile, anche per i generatori di corrente. Più di metà della popolazione non ha ancora accesso all’acqua potabile; è andato distrutto l’80% dei raccolti.
Grave la situazione negli ospedali: una sola struttura su 69 sta funzionando al 100%. Nelle altre, le sale operatorie e gli strumenti per le visite, dalle ecografie alle radiografie, lavorano a singhiozzo. Impossibile avere aria condizionata, solo ai pazienti più gravi viene garantito il ventilatore, per avere un po’ di sollievo dal caldo soffocante.
Tra gli allagamenti, i 30 gradi dell’ottobre caraibico e l’umidità all’80%, resta fondata la preoccupazione che si sviluppino epidemie, o che si diffondano virus come Zika e Chikungunya.
Porto Rico e USA: uniti ma non troppo
“Qui stiamo morendo”, ha detto lo scorso 30 settembre Carmen Yulín Cruz, la sindaca di San Juan, capitale di Porto Rico. Parole chiare dirette soprattutto all’amministrazione Trump, che ha accusato di lentezza e a cui ha chiesto aiuti. Inviare beni a Porto Rico è molto complicato, aveva spiegato Trump perché “è un’isola circondata dall’acqua, dall’acqua dell’Oceano”.
Le parole accorate di Cruz non le sono servite solo a conquistare le prime pagine dei quotidiani: il primo importante carico di beni, gasolio e acqua potabile è arrivato subito dopo il suo appello, a 10 giorni dal passaggio di Maria. La visita del 3 ottobre di Trump nell’isola è stata annunciata con meno di 48 ore di preavviso, anche in questo caso dopo giorni di pressioni.
Il presidente Usa si è fermato a Portorico 4 ore, i portoricani sperano che l’aver visto coi propri occhi la devastazione dell’isola velocizzi il ripristino della corrente elettrica, e i rifornimenti di beni di prima necessità. Trump è però ripartito senza spiegare che cosa intenda fare per aiutarli.
Un reale ostacolo all’invio di aiuti era una legge del 1920, il Jones Act, che impone ai beni spostati da un porto americano ad un altro di essere trasportati solo su navi costruite negli Usa, di proprietà di uno statunitense e con equipaggio americano. La norma stava bloccando l’arrivo di navi per l’emergenza sull’isola, e ci sono volute molte pressioni per convincere Trump a sospenderla. Il Jones Act resterà sospeso solo per una decina di giorni però, poi la legge tornerà in vigore e i beni portoricani torneranno ad essere i più cari dei Caraibi.
Porto Rico fa parte degli USA, ma non è uno stato americano; ufficialmente è un “territorio non incorporato” degli Stati Uniti d’America. I portoricani hanno il passaporto statunitense da 100 anni, ma non possono votare per il presidente o per il Parlamento. I suoi 3 milioni e mezzo di cittadini parlano spagnolo, ma nelle scuole si insegna inglese.
La dipendenza economica da Washington è totale, soprattutto da maggio, cioè da quando Porto Rico ha dovuto dichiarare la bancarotta, perché non è in grado di restituire i 73 miliardi di dollari che deve soprattutto a società finanziarie e fondi speculativi di Wall Street.
Porto Rico non è il 51° stato Usa ma vorrebbe esserlo: negli ultimi 50 anni ci sono stati 5 referendum (il primo nel 1967, l’ultimo lo scorso 11 giugno), negli ultimi due ha nettamente vinto la volontà di entrare negli Stati Uniti, anche se l’affluenza a questi appuntamenti, con gli anni, continua a scendere. D’altra parte si tratta di un voto puramente consultivo, che Washington ha sempre ignorato.
Una lenta ripartenza
Risanamento dei conti in rosso e equiparazione agli altri stati per ora, però, sono temi che restano a margine: la priorità è rimettere in funzione l’isola.
Entro la prima settimana di ottobre il 60% dei portoricani dovrebbe nuovamente avere accesso ai servizi idrici; per l’energia elettrica ci vorrà molto più tempo: a metà ottobre potrebbe essere collegato alla rete solo il 10% delle famiglie. Il servizio di telefonia mobile è attivo per il 40% della popolazione, ma il segnale non copre ancora tutta l’isola. Nei rifugi allestiti per accogliere chi è rimasto senza casa ci sono ancora ottomila persone.
Il sito della Croce Rossa americana per avere aggiornamenti sull’emergenza