L’America che non conta, l’America degli scartati. Mentre la più grande potenza mondiale si appresta al cambio di presidenza, raccontiamo l’altra faccia di un grande Paese dalle molte ombre
Circa mezz’ora dopo l’esplosione della bomba nel quartiere newyorkese di Chelsea, lo scorso settembre, per mano del presunto terrorista Ahmad Kahn Rahami, un poliziotto si era fatto largo tra la folla, spingendo su una sedia a rotelle un anziano magro dall’aria sperduta ma non spaventata. Lo aveva recuperato nella metropolitana, dove era solito dormire e dove nessuno, come in quel momento di trambusto, era solito prestargli attenzione. Per nulla scossi dalla bomba, a due isolati di distanza, sulla Venticinquesima Strada, alcuni homeless bazzicavano nella via davanti al BRC Shelter, uno dei rifugi che ospitano gli oltre 60.400 senza tetto della Grande Mela. Tra questi, ci sono circa 15 mila famiglie e oltre 23.400 minori. A questi vanno aggiunti tutti quelli che, come il vecchietto di Chelsea, non dormono nei rifugi e quindi sfuggono alle statistiche. Spesso, come lui, soffrono di malattie mentali. Ma nessuno può contare sull’assistenza sanitaria. Secondo la Coalition for the Homeless non si vedevano cifre simili dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta. Ma New York non è un’eccezione. Anzi, questi sono solo alcuni dei tanti “invisibili” che fanno parte dei circa 43 milioni di americani (su una popolazione di 324 milioni) che vivono in povertà. Tra questi, 14,5 milioni di minori. Molti di loro (565 mila) hanno perso casa e 8 milioni sono a caccia di un lavoro, spesso senza speranza, in particolare se hanno più di cinquant’anni. Americani ai margini, che raramente fanno notizia e, men che meno, sono riusciti a fare breccia nella retorica delle ultime elezioni presidenziali. Entrambi i candidati, la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump, erano concentrati nel corteggiare soprattutto la classe media Usa, ossia coloro che hanno il potere di spostare il voto e che ancora aspettano di veder tornare la crescita economica a cifre pre-crisi (anche se l’ultimo censimento ha mostrato statistiche incoraggianti).
A settembre, sono stati resi noti dati relativi alla povertà e alla classe media negli Usa nel 2015: la percentuale di poveri è scesa di 1,2 punti assestandosi al 13,5% grazie al miglioramento dell’economia e all’aumento delle assunzioni e dei salari, soprattutto in settori come il retail, la ristorazione e l’ospitalità. Si tratta del calo più significativo dal 1999 e significa che 3,5 milioni di persone non sono più ufficialmente nella fascia povera. Negli Stati Uniti viene considerato povero il singolo che ha un reddito inferiore a 11 mila dollari o una famiglia di quattro componenti con un reddito annuo inferiore ai 24.300 dollari. Per la prima volta dalla crisi finanziaria ed economica del 2008-2009, segni di miglioramento sono stati percepiti anche tra le fasce di reddito medio basso.
«Tutto ha cominciato a quadrare nello stesso momento. Ci sono assunzioni e rialzi degli stipendi, soprattutto nella fascia più bassa del mercato occupazionale, cosa che si abbina a incrementi dei salari minimi», ha detto Diane Swonk, economista indipendente di Chicago. Secondo le statistiche, la povertà è diminuita in modo generalizzato tra i gruppi sociali, ma i miglioramenti più ampi si sono avuti tra ispanici e afro-americani, che rappresentano circa il 45% delle persone al di sotto della soglia di povertà.
In aumento anche il numero di persone con assicurazione medica, chiamata “Obamacare” perché fortemente voluta dal presidente Barack Obama: l’1,3% in più di persone rispetto al 2014 possono ora contare su un medico, ben 4,3% in più rispetto al lancio dell’“Obamacare” nel 2010. Le persone ancora senza copertura sono però il 9,1% della popolazione, pari a 29 milioni di individui.
Tuttavia, va ricordato che prima del 2008 i poveri in America erano circa 23 milioni. Significa che molti individui e anche famiglie sono scivolati nella fascia della povertà durante la recessione e da lì faticano a divincolarsi.
Viaggiando per due mesi attraverso gli Stati Uniti, per verificare di persona i segni di una ripresa economica di cui tanto si parlava, ho parlato con gente di tutte le categorie, dai milionari ai disoccupati, per avere una visione più ampia possibile. Tra questi, Charlie vendeva le riviste di un’associazione per la difesa degli homeless a un angolo della strada a St. Louis, in Missouri, lo Stato con il maggior numero di poveri (22%). Charlie aveva una famiglia, una casa, un lavoro, un camioncino. Poi ha perso il lavoro e a poco a poco tutto è andato a rotoli. Non potendo più pagare il mutuo della casa, la banca gli ha tolto sia la casa che il camioncino, la moglie lo ha lasciato e, non potendo pagare gli alimenti, ha perso anche la custodia della figlia. Anche sulla soleggiata West Coast le cose non andavano poi così bene. A Portland, in Oregon, ho intervistato alcuni homeless che si erano fatti dare un angolo abbandonato della città in cui avevano allestito una specie di campeggio ben organizzato con tende, docce e una cucina, dove i senzatetto, dopo essersi prenotati al mattino, potevano andare la notte stessa. «Sapere che hai un posto dove puoi dormire fino al mattino senza essere cacciato o peggio è un grande sollievo per un homeless», mi aveva detto uno degli organizzatori. Tuttavia, l’associazione viveva con l’ansia di dover smontare tutto in quanto alcuni abitanti del quartiere non erano contenti di avere quell’accampamento sotto casa e il Comune sembrava ansioso di riprendersi quello spazio da vendere al miglior offerente immobiliare. Questi conglomerati di senza tetto a Portland sono aumentati e così pure le tensioni e gli attacchi contro di essi. Per cercare di migliorare la situazione ed evitare che si formino nuovi nuclei, il sindaco Charlie Hales ha lanciato alcuni mesi fa un’iniziativa che permette a chi non ha casa di accamparsi sui marciapiedi della città, purché venga rimosso tutto entro le sette del mattino. Forse un modo tardivo e magari non troppo efficace per riparare alla decisione di ridurre i posti-letto negli shelter dai 720 del 2008 ai 478 del 2015. Anche i vescovi americani che sembravano essersi concentrati principalmente sui temi morali cari ai repubblicani – come pillola anticoncezionale, aborto e più di recente nozze gay – nell’ultimo decennio hanno mostrato maggiore attenzione ai bisogni degli ultimi.
Ai poveri ci avevano sempre pensato soprattutto le religiose. «Sentire parlare il Papa di una Chiesa povera per i poveri per me è stato un momento elettrizzante. Penso che le sue parole abbiano messo a disagio molta parte del clero», mi aveva detto suor Lillian McNamara, direttrice dell’Encore Community Services, un’associazione che dal 1977 si preoccupa di fornire pasti caldi e possibilmente un tetto agli anziani più bisognosi nella West Side di Manhattan. Nel suo ufficio, presso il dormitorio per homeless di Encore – che si trova sulla 49esima Strada, nel Theater District – arrivano anziani soli e senza risorse, camminando curvi tra le tante luci dei teatri di Broadway e quasi ignorati da una folla troppo presa dalla frenesia della metropoli. Secondo suor Lillian non tutti, ma molti, all’interno della Chiesa non guardavano più a se stessi come servitori. Ma questo Papa, che davvero si presenta come servitore inviato per realizzare il progetto di Dio, sta spostando il centro di attenzione. Suor Lillian auspica anche che le donazioni aumentino dopo il calo significativo che era stato registrato con la crisi economica: «E anche se ora l’economia sta migliorando, le donazioni non sono riprese. Per esperienza so che quando queste cose se ne vanno, difficilmente tornano indietro. Ma, ora, chissà…». È quanto si auguravano anche al Joseph P. Kennedy Community Center, parte della rete Catholic Charities dell’Arcidiocesi di New York. La direttrice del programma di distribuzione di cibo agli indigenti, Jeanne McGetting, auspica maggior attenzione verso la povertà e le disparità economiche, così come invita a fare non solo Papa Francesco, ma anche il presidente Barack Obama. McGetting racconta che se prima del 2008 raccoglievano 400 mila dollari l’anno di fondi, nel 2015 si erano dovuto arrangiare con 150 mila. E questo in un momento in cui il numero di persone bisognose era in aumento.
In quest’ultimo anno, le cose non sono cambiate molto. È cambiato però l’atteggiamento dei vescovi americani, soprattutto dopo la visita di Papa Francesco nel settembre del 2015. Pochi mesi prima, nel marzo del 2015, il vescovo Robert McElroy di San Francisco nel suo blog sul sito della United States Conference Catholic Bishops (Usccb) aveva elencato le cinque frasi più significative pronunciate fino ad allora dal Pontefice su povertà e diseguaglianza economica e aveva ammesso: «Non sono solo le misure politiche che ignorano i poveri, ma anche le nostre abitudini». Tuttavia, il vescovo McElroy aveva respinto le accuse di chi sosteneva che le alte sfere della Chiesa cattolica americana non avessero fatto nulla per assistere chi viveva problemi più pratici dei semplici dilemmi morali. «Fin dall’inizio della recessione – mi spiegava – il massimo sforzo dei vescovi è stato rivolto verso il contenimento dei tagli al welfare. Abbiamo anche costituito una coalizione con le leadership di altri gruppi religiosi come protestanti, evangelisti, battisti ed ebrei e posso dire che siamo stati moderatamente efficaci
Il vescovo californiano aveva, però, ammesso che bisognava fare di più per coloro che, anche se avevano ritrovato un lavoro, dovevano contare su salari che non garantivano un livello di vita decente per molte famiglie. «Dovremmo tenere sotto controllo questo crescente divario economico tra l’un per cento di privilegiati e il resto della società – mi aveva detto -. Che effetti può avere questo gap? Che tipo di società avremo se permettiamo che la diseguaglianza economica non solo continui a esistere, ma che sia in costante aumento? Ed è qui che le parole del Pontefice si rivelano preziose. È lui che ci sta spingendo, anche facendoci sentire a disagio, verso una riflessione su questo problema». Un anno dopo quel “disagio” ha avuto i suoi effetti. Nell’annuale messaggio dei vescovi in occasione del Labor Day, primo lunedì di settembre e ultimo giorno d’estate per gli americani, l’arcivescovo di Miami Thomas Wenski ha affermato che la Chiesa sta dalla parte delle famiglie che soffrono a causa di povertà e disoccupazione o sono affette dalla piaga della droga. «Di fronte a questa realtà, la Chiesa manda un messaggio di speranza – aveva detto Wenski -. Cerca di rimpiazzare la disperazione e l’isolamento con vera solidarietà riaffermando la fiducia in un Dio buono e pieno di grazia che sa quello di cui abbiamo bisogno prima che noi lo chiediamo».
L’arcivescovo, che presiede anche la Commissione episcopale sulla giustizia e lo sviluppo umano, ha poi parlato delle “crisi gemelle” che al momento colpiscono sia le famiglie che i lavoratori statunitensi: povertà e mancanza di un lavoro decente. Le ha definite “gemelle” perché entrambi questi fenomeni hanno colpito la dignità dei lavoratori e hanno creato ostacoli alle famiglie. Per questo, in particolare nel Midwest dove molte aziende hanno trasferito all’estero la produzione, sono aumentati l’uso di droghe e quindi i morti per overdose.
Per far fronte a questa crisi, la Catholic Charities Usa ha deciso di fare lobby presso il Congresso per ottenere misure e fondi a favore di programmi che mirano a ridurre i danni provocati dalla povertà. La presidente dell’associazione, la suora domenicana Donna Markham, sostiene che mostrare ai membri di Camera e Senato l’efficacia di programmi locali è fondamentale per ottenere legislazioni che abbiano un impatto positivo anche sul resto del Paese.
Secondo Kathryn Edin, professoressa di sociologia alla Johns Hopkins University e co-autrice di $2 a Day: Living on Almost Nothing in America, la povertà in America è vissuta come un tabù, qualcosa che va contro i valori statunitensi.
Quale potrebbe essere la soluzione? Per Edin «molti programmi sociali sembrano fatti apposta per stigmatizzare i poveri». Bisognerebbe invece integrare il più possibile queste persone per farle sentire comunque parte della società, dove poi verranno aiutate a ritrovare la loro dignità attraverso un lavoro decente e condizioni di vita più umane.