Durante gli anni dell’Isis è stato Mosul Eye, il coraggioso blogger che faceva uscire le notizie sulle atrocità. Oggi dal web continua a battersi per la rinascita della città
«Quando diedero alle fiamme la biblioteca centrale dell’Università dove avevo studiato e dove insegnavo da un anno, rimasi completamente scioccato: vidi con i miei occhi bruciare montagne di libri, uno spettacolo orribile. Per l’Isis quei libri erano pericolosi, perché se le persone leggono aprono la loro mente e non sono più controllabili, non sono più influenzabili da un’ideologia di morte».
In un’intervista ad Avvenire – poche settimane dopo la liberazione di Mosul – raccontava così due anni fa la sua storia il professor Omar Mohammed. Lo shock di un giovane professore di storia in un’università tra le più quotate del mondo arabo (30 mila studenti, 22 facoltà tra cui Scienze e Medicina come fiore all’occhiello) che finisce in fumo annientata dalla furia devastatrice dei jihadisti. Fu da quel trauma che nacque la sua personale rivolta morale: il professor Mohammed diventò Mosul Eye, il coraggioso blogger anonimo che durante i due anni della morsa dell’Isis sulla seconda città dell’Iraq ha raccontato la quotidianità dell’orrore. Sempre con un’attenzione speciale al volto plurale della società irachena, che quella violenza stava cancellando: tra i suoi post più belli di quel periodo ci sono le foto di un lumino acceso in una chiesa in macerie nella notte di Natale del 2015. Il pensiero di un musulmano che rischiava la vita per ricordare almeno con un piccolo gesto quella parte della città che era stata costretta all’esilio.
Negli anni dell’occupazione dell’Isis le notizie diffuse da Mosul Eye sono state una fonte importante per i giornalisti di tutto il mondo. Ed è così venuto naturale – subito dopo la liberazione della città – cercare di capire chi era questo blogger. Il mondo ha così conosciuto l’identità e il volto di Omar che è diventato un personaggio: lo invitano spesso a parlare in sedi prestigiose per raccontare il calvario della sua città.
Ma la fatica del professor Mohammed non è affatto finita, perché la liberazione dagli uomini del sedicente califfato non significa automaticamente un futuro di speranza per Mosul. Ci sono ancora tante nuvole che si addensano sull’Iraq, altri volti dello stesso settarismo che rischiano di compromettere ogni sforzo per la ricostruzione. Ed è per questo che – anche nel contesto del dopo Isis – Mosul Eye sta andando avanti. Con un obiettivo ben preciso: raccontare e incoraggiare tutto ciò che davvero aiuta ad andare oltre le macerie.
Un primo appello lo aveva già lanciato sul finire della guerra con l’Isis: aveva chiesto agli atenei di tutto il mondo di donare dei libri per ricostruire la biblioteca di Mosul. La catena di solidarietà partita via social ha funzionato: sono arrivati migliaia di volumi che hanno permesso di riaprire a tempo di record la struttura. Ma Omar ha documentato anche il ritorno della musica e dell’arte nella città, i piccoli passi della ripresa dell’agricoltura, la riapertura delle botteghe artigiane, la sfida delle infrastrutture da rimettere in piedi: dalle condotte idriche fino alla rete ferroviaria. È la voce della vita quotidiana in una città che deve fare i conti con una situazione in cui tre quarti dei siti storici e delle abitazioni sono stati distrutti.
Ma c’è soprattutto un gesto molto importante che il professor Omar Mohammed sta compiendo: sta raccontando le storie di chi ritorna a Mosul. Un modo per incoraggiare e mostrare che anche dopo la tempesta vivere insieme è possibile. In questo contesto si inserisce anche la sua attenzione alla comunità cristiana: a gennaio, per esempio, sul blog ha commentato con gioia il ritorno di un vescovo caldeo a Mosul, con l’ordinazione episcopale del domenicano Najeeb Michael. «La nomina di un uomo di così grande spessore in un periodo così critico per la storia di Mosul – ha scritto – è molto importante per il sostegno e l’incoraggiamento alle relazioni pacifiche tra le diverse comunità e la ricostruzione della coesistenza che per secoli è stata un patrimonio di Mosul». Recentemente si è poi recato nel vicino monastero di Mar Beham, un luogo dove la presenza cristiana risale addirittura al IV secolo d.C. e sfregiato anch’esso dai jihadisti. Omar ha gioito per i lavori di ricostruzione in corso, sostenuti dall’ong francese Fraternité en Irak. «Il monastero – ha scritto in un tweet con le foto dei tesori salvati dalla polvere – è sempre stato ed è tuttora una casa per tutti, indipendentemente dalle distinzioni etniche e religiose».
Una delle iniziative più recenti è un appello rivolto a Google Maps affinché aggiorni le sue mappe su Mosul. Quelle attualmente on line risalgono, infatti, al 2004 e ritraggono una città che non c’è più. Secondo il professor Mohammed mostrare il vero volto della città di oggi sarebbe un contributo importante per la ricostruzione. Aiuterebbe a identificare i patrimoni culturali da salvaguardare, permetterebbe al mondo delle tecnologie informatiche di mettere a disposizione il loro know how, offrirebbe opportunità di lavoro ai giovani della città ma anche a chi ha già un’attività di tornare ad avere un indirizzo affidabile dove ricevere pacchi o corrispondenza. «Aggiornate la mappa di Mosul e promuoverete una città più pacifica, la sua ripresa e il suo futuro» è il suo appello. Simbolo di quell’Iraq che vorrebbe tanto voltare pagina davvero.