La diversità dell’Amazzonia è frutto di una ricca storia di spostamenti umani. Ma oggi tutta l’America Latina è attraversata da molti migranti in cerca di una vita migliore
L’Amazzonia è sempre stata caratterizzata da un’imponente diversità socio-culturale. Ma è con la colonizzazione e la tratta degli schiavi africani che questa eterogeneità ha preso cammini forzati. Il popolo brasiliano si è creato grazie alle migrazioni: quelle interne dalle regioni più povere o quelle dall’estero. Santa Rita do Weil – la piccola comunità in cui mi trovo – è stata fondata dagli uomini di quattro famiglie tedesche fuggite dalla Germania dopo la Prima guerra mondiale, nella speranza di un futuro migliore. Motivazione tanto attuale e nello stesso tempo vecchia come il mondo.
In Amazzonia, ancora oggi, la mobilità umana resta grande. Il fenomeno è così importante che lo stesso documento redatto in preparazione al Sinodo pan-amazzonico ne parla diffusamente. I tipi di mobilità sono diversi: esiste, ad esempio, la migrazione forzata di molti popoli indigeni che – a causa dell’illegalità dell’espansione del latifondo, dello sfruttamento minerario e del legname – non vedono rispettati i confini dei loro territori. Sono minacciati di morte e quindi costretti a fuggire verso le città abbandonando le loro radici, ingrossando le già vaste periferie dove difficilmente riusciranno a trovare le condizioni per una vita degna. C’è poi la piaga orrenda della tratta di persone – definita da Papa Francesco «un crimine contro l’umanità, una vera forma di schiavitù» – legata al traffico di armi e droga e che sfocia nello sfruttamento sessuale, nel lavoro schiavo o nel traffico di organi. Le modalità sono note: si contattano famiglie povere, si fanno promesse di lavoro o di studio, si dà una piccola ricompensa (il motore per la canoa, una piccola somma di denaro…) e le famiglie consegnano la figlia o il figlio senza averne più notizie. Le organizzazioni criminali hanno anche un cardàpio – un menù – per scegliere i “servizi” desiderati. Le rotte hanno come punti di raccolta le grandi città dell’Amazzonia: Manaus, Boa Vista e Bèlem; l’uscita dal continente avviene attraverso la Guiana francese, porta spalancata per l’Europa e il resto del mondo. La lotta contro questa piaga qui in Brasile è portata avanti da «Un grido per la vita», realtà legata alla rete internazionale Talitha Kum: vengono offerte assistenza e, soprattutto, prevenzione, spiegando i meccanismi di reclutamento nelle scuole, nelle comunità, nei gruppi ecclesiali. La piaga del traffico ha saputo inoltre sfruttare la grande crisi migratoria del Venezuela. Quanto sta accadendo è una vera e propria diaspora, il più grande esodo mai avvenuto in America Latina: sono più di due milioni i venezuelani che hanno attraversato la frontiera negli ultimi due anni.
Migrare non è un crimine, è un diritto. Ma la logica di oggi è abbattere le barriere per merci e capitali e innalzare quelle per le persone, creando così le condizioni perché chi è fragile e senza risorse sia ulteriormente sfruttato dalle organizzazioni criminali. Il governo brasiliano accoglie i migranti, ma non ha un piano per gestire o organizzare questo fenomeno; così anche qui cresce l’esasperazione della popolazione che si lascia andare a forme di xenofobia. L’esempio più grave è avvenuto nell’agosto dello scorso anno, quando è stato dato alle fiamme un accampamento improvvisato ai bordi di una strada, provocando vari morti. Accanto a questi episodi di violenza, però, la Chiesa non rimane con le mani in mano. Le forme di accoglienza si sono moltiplicate: parrocchie, diocesi, casa religiose hanno offerto risposte ai bisogni primari di cibo, acqua, vestiti, di un tetto e soprattutto di ascolto. Non è la soluzione del fenomeno migratorio, ma è quanto farebbe Gesù se fosse in mezzo a questi fratelli e sorelle.