Missionario fidei donum bergamasco trapiantato sull’isola caraibica, don Efrem Lazzaroni racconta la sua esperienza tra povertà, sette religiose, condizionamenti ideologici e l’immancabile Coronavirus
«Scoprire la bellezza e l’autenticità della fede cristiana in mezzo alle difficoltà della vita quotidiana e alla Babele di linguaggi ideologici e religiosi presenti nella società cubana contemporanea». È la missione a cui si sente costantemente chiamato don Efrem Lazzaroni, 42 anni, bergamasco di Cenate Sopra. Dal 2014 è missionario fidei donum a Cuba, dove è parroco nelle parrocchie di Santa Eulalia a Jamal e della Madonna del Carmine a Cabacú, alla periferia di Baracoa, provincia di Guantanamo.
«Si tratta di un insieme di 30 piccole comunità cristiane sparse sul territorio, che si riuniscono in case private o sotto tettoie più o meno improvvisate: una sorta di “parrocchia diffusa” – racconta don Efrem -. L’unica fragile chiesa in muratura era quella di Cabacú, costruita nel 1938, ma rasa al suolo dall’uragano Matthew del 2016. Ad oggi non c’è speranza di poterla ricostruire, per cui celebriamo la Messa sotto un tetto provvisorio, nel cortile di una signora che gentilmente ci ospita ormai da quattro anni. La cappella di Jamal, invece, è una vecchia casa di legno, simile a una palafitta, proprietà di una famiglia di tradizione cattolica, trasformata in chiesa eliminando le pareti divisorie interne e introducendo alcuni banchi. In linea con uno slogan che si cantava alcuni anni fa, “chiesa di mattoni no, Chiesa di persone sì!”, mi pare proprio che a Cuba si possa vivere la fede così: una comunità senza strutture, ma fatta di volti e relazioni, di incontri e visite, di aiuto e vicinanza. In questa particolare dimensione di Chiesa “formato-famiglia”, le attività sono quelle comuni a tutte le parrocchie del mondo: celebrazioni, incontri, iniziative per i giovani, visite ad ammalati e feste patronali».
Il contesto però è quello di un’isola dalla storia particolarissima, dove le sfide missionarie certo non mancano. «La gente del posto vive nella costante difficoltà di doversi procurare le cose più basilari della vita: cibo, medicine, vestiti, trasporto. Spesso questa ansia quotidiana lascia poco spazio nella mente per altro. Si invoca spontaneamente Dio perché aiuti a trovare il necessario: il pane quotidiano, appunto. Quando faccio salire sulla jeep persone che fanno l’autostop lungo la strada, le sento spesso ringraziare Dio perché ha fatto sì che passasse un’auto dopo ore di attesa».
Le difficoltà, tuttavia, non si limitano alla povertà diffusa e alla mancanza di beni e servizi di prima necessità. Un’altra grande sfida è legata all’ideologia. «Da sessant’anni – continua don Efrem – la “religione ufficiale” di Cuba è il comunismo, inculcato con una propaganda martellante e con ogni mezzo di comunicazione. La nuova Costituzione della Repubblica di Cuba recita nel preambolo che “solo nel socialismo e nel comunismo l’essere umano raggiunge la sua dignità piena”. Questa “religione” ha il suo messia: Fidel Castro. I suoi martiri: i caduti della Revolución. I suoi missionari: i medici inviati in altri Paesi a “salvare vite”. E le sue feste, visto che nel 1970 Castro decise di abolire il Natale e sostituirlo con il 26 di luglio, giorno del primo attentato realizzato dai rivoluzionari nel 1953. Già nella scuola dell’infanzia, la prima filastrocca che viene insegnata ai bambini si conclude con il grido “saremo come il Che”. E così via fino all’università, un condizionamento ideologico che si installa nel cervello delle persone e resiste ancor di più in chi vive nelle zone rurali, lontano dalle grandi città, come è il caso delle mie parrocchie: difficilmente una persona capisce veramente che il cristianesimo è qualcosa di diverso dal comunismo, o, per dirla in modo più immediato, che Gesù sia più importante di Fidel».
Un ulteriore aspetto è quello della proliferazione delle tante Chiese protestanti o sette religiose. «Negli ultimi decenni – analizza il fidei donum – dopo quasi quarant’anni di repressione, il regime comunista ha concesso la libertà di culto. Ma, come ha sottolineato l’ex nunzio apostolico a Cuba, monsignor Giorgio Lingua, non è ancora libertà religiosa: ognuno, infatti, può vivere la sua fede a patto che ciò non interferisca nella vita civile e sociale. Negli anni sono state fondate moltissime Chiese e sette, più o meno aggressive, che si alimentano del desiderio della gente di ottenere salute e fortuna, fanno leva su celebrazioni dallo stile carismatico ed emotivo e si mantengono riscuotendo la decima dai loro adepti. Si sono diffuse fino ai più reconditi angoli delle montagne e si definiscono cristiane in contrapposizione ai cattolici, da loro considerati idolatri per via della venerazione della Madonna e dei santi. Anche il sincretismo animista afro-cubano è presente con i suoi culti, sotto il nome di santería o spiritismo. Spesso capita che i nostri semplici parrocchiani soffrano di “crisi d’identità”: da una parte, si sentono dire che non sono cristiani, dall’altra, che non sono cattolici. A volte mi chiedono: “Noi siamo cristiani?”. Oppure: “Ci salveremo?”. A Jamal non ci sono moltissime case, ma nel raggio di poche centinaia di metri ci sono almeno cinque chiese diverse: cattolica, battista, pentecostale, del Nazzareno e gedeonista».
In un simile contesto segnato da difficoltà economiche e “confusione” religiosa, quale può essere il senso della presenza dei missionari? «Vivere la fede con umiltà, spirito di fratellanza e servizio – è convito don Efrem -. L’esserci, la fedeltà, l’operare silenzioso, l’attenzione ai più poveri e la vicinanza a tutti penso siano i tratti salienti della nostra presenza e della nostra missione. Senza rinunciare al dare ragione della speranza che è in noi, attraverso una critica costruttiva, che punta a risvegliare le coscienze. Tutto ciò esige la nostra costante conversione personale nel tentare di essere sempre più coerenti al Vangelo, liberandoci dalle tentazioni della rabbia, del risentimento, dello scoraggiamento, del disfattismo. I frutti della nostra missione, se saremo stati autentici, li vedrà solo il Signore. Li lasciamo nelle sue mani. Però quando capita di vedere alcune persone vivere così, specialmente i giovani, intravediamo almeno dei segni di speranza».
In tutto questo, infine, anche Cuba sta vivendo l’emergenza sanitaria legata alla pandemia di Coronavirus. «Rispetto ad altri Paesi, la situazione è migliore – dice don Efrem -: per il momento, ci sono “solo” circa 200 vittime ufficiali. La curva pandemica è peggiorata proprio in questi primi mesi del 2021, a causa dell’apertura delle frontiere: l’aumento dei contagi nelle due città più popolose del Paese, L’Avana e Santiago, è preoccupante. Perciò adesso è stato “chiuso” di nuovo tutto. Nel far fronte alla pandemia, è risultata utile l’abituale organizzazione della società, basata sul controllo della popolazione. Grazie alla presenza di ambulatori medici dispersi su tutto il territorio e di altre strutture, i casi “sospetti” vengono individuati e portati in appositi centri di isolamento, prevalentemente in scuole, mentre i positivi vengono ricoverati negli ospedali militari.
Questo “protocollo” era già rodato nella sanità cubana per altre malattie tropicali epidemiche, come la dengue e lo zika, che si affrontano tutti gli anni. Sapendo di non poter disporre di tante apparecchiature e medicine, il sistema è basato sulla prevenzione e sull’alto numero di medici e studenti di medicina che visitano quotidianamente tutte le case in cerca di persone con possibili sintomi».
A Cuba si è lavorato molto anche sul fronte delle vaccinazioni, «ovviamente in proprio, senza l’aiuto di altri Paesi – come conferma il missionario -, un po’ per orgoglio, un po’ per i costi. Ci sono quattro vaccini – Soberana1, Soberana2, Mambisa e Abdala – ancora in fase di sperimentazione clinica in alcune città. Dovrebbero essere pronti entro fine mese». Questo però non pare indurre un sentimento di speranza diffuso, anzi. «La gente suole ripetere con una certa rassegnazione che “andiamo all’indietro”, perché sembra che le cose peggiorino invece di migliorare. È sempre più difficile trovare cibo e perciò si formano lunghissime code nelle botteghe, dove si spera che prima o poi arrivi qualcosa. Da gennaio sono aumentati i salari e i prezzi, ma non c’è niente da comprare. Il governo si ostina con lo stesso modello economico statalizzato e inoltre irrigidisce la repressione.
Anche la Chiesa, dopo un ventennio di “entusiasmo missionario” iniziato con la visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1998 e proseguito con la “riapertura delle chiese” e con tante iniziative e programmi pastorali, adesso si trova in un momento di stallo: è chiamata a rinnovarsi nella fedeltà, ma in condizioni molto cambiate. Sicuramente, come in tutto il mondo, si spera nella fine del Covid-19: ma sarà sufficiente? Crediamo di no. Quindi tentiamo di rinnovare la nostra speranza nella sorgente sempre fresca del Vangelo e dell’amore di Dio, affinché illumini ogni giorno il cammino da seguire. La pandemia è un tempo di spogliazione e discernimento. Speriamo di uscirne con più convinzione».