Dopo dieci anni in Cambogia, padre Giovanni Tulino è stato richiamato in Italia per ricoprire il ruolo di economo generale: «Vorrei dedicarmi a questo servizio da prete, non da tecnico: anche questo mondo è una realtà da evangelizzare»
Ha fatto della gratuità il principio e il fulcro attorno a cui ha costruito i suoi dieci anni di missione in Cambogia. E oggi si ritrova a fare l’economo generale del Pime a Milano. Eppure quello che sta vivendo padre Giovanni Tulino, missionario del Pime di 44 anni, originario di Nola nel Napoletano, non è uno sdoppiamento di personalità. E neppure un trauma insanabile. Anche se deve ammettere di aver dovuto «elaborare il lutto». «La proposta mi è arrivata in un momento particolarmente generativo della mia vita di uomo e di missionario. Stavo generando relazioni, progetti, sogni… Ma vivo questo cambiamento nella serenità, perché la richiesta di tornare in Italia e di occuparmi di una questione apparentemente “arida” ha toccato le corde più intime del mio essere».
Si tratta di corde che vibrano sulle note della gratuità, della cura e della collaborazione. Che in Cambogia, come in Italia e in qualsiasi altra parte del mondo, si nutrono e si arricchiscono anzitutto di incontri e di relazioni. E allora non fa poi così tanta differenza – ma un po’ sì – se questi incontri o queste relazioni avvengono in uno sperduto villaggio cambogiano con un unico cristiano e una prima Messa da celebrare o negli uffici della Casa madre del Pime di Milano. «Padre Beniamino Depalma, vescovo emerito della diocesi di Nola, persona molto cara e molto saggia a cui spesso faccio riferimento, mi ha detto una cosa illuminante: il Signore non chiede mai di lasciare qualcosa se quello che ti domanda di prendere non avesse un “di più”, una perla preziosa da cercare e scoprire. Queste parole me le ripeto tutti i giorni».
Padre Giovanni è tornato in Italia dopo aver vissuto la sua missione prima a Ta Khmau, nella periferia sud di Phnom Penh, e negli ultimi tempi a Kampot, in entrambi i casi sulla scia di altri missionari del Pime, rispettivamente padre Mario Ghezzi e padre Gianluca Tavola. In entrambi i contesti, ricorda, «quasi nessuno conosce Gesù, neppure lo ha mai sentito nominare. Ma proprio lì c’è spazio per la testimonianza e la condivisione a partire dalla gratuità, che è la chiave per entrare nel cuore del popolo cambogiano».
È quanto ha sperimentato anche poco prima di rientrare in Italia, quando ha celebrato la prima Messa a Tropeang Rung, una piccola comunità del settore pastorale di Kampot-Kep, dove c’è un solo battezzato: «Insieme ai cattolici di altre comunità – ricorda con gioia – per la prima volta abbiamo “spezzato il pane” per Tropeang Rung, per la prima volta sono risuonate parole che per noi cristiani sono importanti, per la prima volta si è pronunciato il Vangelo. E, attraverso l’Eucarestia, abbiamo proclamato che il Signore è morto e risorto per la gente di quel posto. Il Signore si fa vivo e presente anche nel deserto e nascerà anche a Tropeang Rung per rimanerci. È stato un dono grande per me e per tutti i cristiani. Lì c’è futuro!».
Padre Tulino racconta volentieri la storia di quell’unico cristiano che «ha conosciuto Gesù alcuni anni fa grazie alle cure di altri cristiani della fervente comunità di Chumkiri. Si è innamorato di quella testimonianza nella gratuità e oggi, a Tropeang Rung, è lui stesso che ha fatto partire tante attività tra scuola, catechismo e altre iniziative. E un bel gruppo di catecumeni sta ora camminando per capire cosa il Signore può dare alle loro vite», ricorda padre Giovanni che continua a seguire le sue comunità anche a distanza.
Un’altra gioia che ha vissuto poco prima di partire è stata quella di ricevere come assistente, nella parrocchia di cui era parroco, un giovane prete cambogiano, padre Antony, suo studente di Sacra Scrittura in seminario, ordinato lo scorso settembre insieme ad altri due. «È stato un grande evento per la diocesi di Phnom Penh. Da diversi anni, infatti, non c’erano ordinazioni sacerdotali e adesso bisognerà aspettare altri tre o quattro anni. I preti locali infatti sono pochissimi: attualmente sono solo 13 più uno che è diventato prefetto apostolico di Kampong Cham».
Questo pone la questione del senso di una presenza missionaria che resta essenziale in un Paese dalla Chiesa ancora così giovane e con così poco personale. «I diversi istituti missionari presenti in Cambogia, compreso il Pime – riflette padre Giovanni -, sono chiamati a lasciare qualcosa del proprio carisma e a confrontarlo con i carismi degli altri. La sfida è di capire come annunciare il Vangelo a una sola voce pur nella diversità e come farlo in un contesto che è totalmente altro dal punto di vista culturale e religioso. È una sfida impegnativa ma anche entusiasmante. In Cambogia si respira l’aria dell’era apostolica. Leggi le lettere di Paolo e le questioni che ne emergono e senti che stai vivendo le stesse cose. Come a quel tempo, non abbiamo ancora un linguaggio per l’annuncio e non abbiamo strumenti come la Sacra Scrittura cattolica tradotta in khmer. La Cambogia è come la Chiesa alle origini, un luogo in cui il Vangelo non è mai stato annunciato, dove veramente Gesù non è conosciuto».
«Ci ho messo il cuore in quel posto. E penso che quelli siano i posti in cui noi missionari del Pime dovremmo continuare a mettere il nostro cuore. Posto in cui non ci sono strutture, non c’è comunità, ma si intravedono i segni di un Vangelo che è arrivato prima di noi. C’è qualcosa di misterioso in atto. Quando un cambogiano sperimenta la gratuità del nostro Dio che accoglie, ama e perdona senza chiedere nulla in cambio c’è una meraviglia che apre molte porte anche se poi è difficile capire un Dio che muore in croce, un Dio diventato uomo che si è fatto ammazzare. È qualcosa di inconcepibile. Ma chi riesce a capire che dietro quel segno, dietro quella croce, c’è una donazione totale, viene colpito in profondità».
Anche in questo stanno la fatica e il fascino del primo annuncio che padre Giovanni si è trovato a condividere con uomini e donne di origini e culture molto diverse: italiani, indiani, africani, coreani, vietnamiti, birmani, francesi, colombiani, argentini, giapponesi, filippini, spagnoli, malesi: «Una dimensione internazionale particolarmente interessante perché ha il respiro di una Chiesa veramente universale».
«Penso che la collaborazione con altri Istituti missionari – aggiunge – rappresenti il futuro della Chiesa sia nei Paesi di missione che in Italia». Collaborazione, del resto, insieme a cura e – come detto – gratuità, sono i tre binari su cui si è sviluppata la missione di padre Giovanni in Cambogia e su cui intende proseguire il suo servizio anche qui in Italia. «Fare l’economo non può essere un’esperienza arida se la vivi come missionario – dice -. Vorrei fare l’economo essendo un prete non diventando un tecnico, pensando che anche il mondo dell’economia può essere una realtà da evangelizzare. Occorre però partire dalla spiritualità per interrogarci sui nostri stili di vita o sui progetti che portiamo avanti qui e in missione per capire se corrispondono veramente al carisma dell’Istituto».
Una responsabilità, dunque, che diventa innanzitutto servizio: «Un mettersi a disposizione degli altri, ma anche un camminare insieme con collaboratori competenti che devono poter lavorare in autonomia – aggiunge -. La cosa più bella degli inizi sono stati proprio gli incontri “gratuiti” attorno a un caffè, dove trovo persone che vogliono bene al Pime e che sono qui perché ci credono e desiderano mettere a servizio le loro competenze. Sento che questo è il posto dove il Signore mi chiede di essere oggi, pur con la preoccupazione di affrontare qualcosa di completamente nuovo e diverso. Tuttavia non sono angosciato. Penso che se sei vero e trasparente in quello per cui sei stato chiamato non potrà che andare bene».