Tra i gruppi tribali dello Stato indiano del Bengala occidentale, due padri del Pime e due suore dell’Immacolata accompagnano una comunità cristiana poverissima ma fiera delle proprie radici
Una sola strada asfaltata si snoda tra il verde brillante degli alberi di tè. Arrivando di sera, lungo il tragitto si incrociano i fanali delle moto o le torce dei cellulari. Gruppi di bambini nascosti nell’oscurità ridacchiano e accolgono i visitatori con il saluto dei cristiani indiani “Jai Yeshu”, congiungendo le mani davanti a sé. Siamo nella parrocchia di Kharubanga, tra i villaggi di coltivatori del Darjeeling, nello Stato indiano del Bengala occidentale. Continuando a percorrere la strada si raggiunge il sito di una chiesa in costruzione. L’hanno voluta i missionari del Pime, che dal 2020 risiedono qui: «Avevamo bisogno di uno spazio più grande», racconta padre Bala Showri Yaruva, originario dell’Andhra Pradesh, nel Sud del Paese, inviato nella più giovane missione dell’Istituto in India a luglio dello scorso anno, subito dopo la sua ordinazione. «Nella cappella della Santa Croce, che sorge vicino alla nostra residenza, non ci stavamo più durante le celebrazioni: la maggior parte della gente era costretta a seguire la Messa dal cortile». Segno del fervore religioso della comunità, composta perlopiù da adivasi, le popolazioni indigene dell’India che spesso sono relegate ai margini della società.
In questo caso la distanza dei tribali rispetto al resto dell’India è anche fisica: Kharubanga, composta da otto villaggi (circa 400 famiglie per un totale di 1.700 persone), fa parte della diocesi di Bagdogra, ma è lontana dalle grandi città e defilata rispetto alla strada principale diretta a nord che porta a Siliguri, la città che rappresenta il centro per gli scambi commerciali al confine con il Nepal, il Bhutan e il Tibet. Nei villaggi, al contrario, si trova solo qualche baracca in lamiera che vende beni di primissima necessità.
«I nostri parrocchiani faticano a uscire dalla realtà dei loro villaggi», continua padre Bala, che nel suo ministero in parrocchia affianca padre Xaviour Ambati, che ha avviato questa missione quattro anni fa dopo una lunga esperienza in Camerun e oggi è il vice superiore regionale del Pime per l’Asia meridionale. «La maggior parte parla solo la propria lingua locale e non sa leggere o scrivere l’hindi», lingua franca degli Stati settentrionali dell’India, «tanto meno l’inglese – spiega il missionario -. Per questo, anche se al villaggio si guadagna pochissimo, nessuno prova a trasferirsi. E chi lo fa torna a Kharubanga dopo qualche mese».
La maggior parte degli adivasi è impiegata nelle piantagioni di tè: la giornata lavorativa inizia alle 8 del mattino e termina alle 17, con un’ora per la pausa pranzo, per sei giorni alla settimana. Le foglie, raccolte a mano, vengono ammassate in grandi sacchi che a fine giornata vengono svuotati in piccoli camion. Lasciate essiccare in magazzini per quattro giorni, sono poi pronte per essere imbustate e spedite in tutto il mondo. I lavoratori delle piantagioni, però, non partecipano alla divisione degli utili: la paga giornaliera è di sole 250 rupie, pari a poco più di 2,50 euro, e viene versata soltanto durante la stagione secca, perché nel periodo dei monsoni, da giugno ad agosto, i campi sono tutti allagati ed è impossibile lavorare.
«Per un raccolto superiore ai 15 chili viene concesso un bonus, ma il denaro è comunque insufficiente, basta a malapena a comprare il cibo per una settimana e a mandare un figlio a scuola», racconta padre Bala. Bambini e ragazzi, così, spesso scorrazzano per le strade, nessuno controlla che vadano a lezione. La scuola governativa locale ha ufficialmente solo nove iscritti, perché la maggior parte dei bambini adivasi frequenta le elementari che il vescovo di Bagdogra, monsignor Vincent Aind, ha deciso di affidare al Pime insieme alla parrocchia. L’arrivo di padre Ambati ha permesso un salto di qualità: sono stati assunti sei insegnanti locali (il cui stipendio varia tra le 5.000 e le 7.000 rupie al mese, tra 55 e poco meno di 80 euro) e alle famiglie viene chiesta una retta annuale di 200 rupie. Una cifra che, però, molti non riescono ancora a coprire.
Per dare sostegno agli insegnanti (che non hanno ricevuto una formazione specifica) il missionario – anch’egli originario dell’Andhra Pradesh – ha chiamato due missionarie dell’Immacolata, suor Nirmala Beck e suor Carmela Ekka. Entrambe provengono dallo Stato tribale del Jharkhand, dove la cultura locale è simile a quella dei parrocchiani di Kharubanga, che perlopiù appartengono alla tribù dei kurukh, chiamata anche oraon. Nella diocesi di Bagdogra vivono anche gruppi di sadri e santali, le cui lingue assomigliano un po’ di più all’hindi, mentre la lingua kurukh resta incomprensibile ai missionari. Per questo l’aiuto delle due religiose è fondamentale: «Abbiamo aspettato un anno e mezzo a venire qui perché non esisteva nemmeno una casa dove poter stare – racconta suor Nirmala, la più anziana delle due -. È una missione difficile, perché non c’è niente. È impegnativo, soprattutto per gli scarsi livelli di istruzione e perché c’è tanto da fare anche per l’animazione missionaria dei giovani. Ma questo è il bello delle sfide. Ed essere in mezzo al verde delle piantagioni di tè è bellissimo». Al mattino le missionarie lavorano come insegnanti nella scuola elementare della parrocchia. I bambini studiano per terra, mentre le interrogazioni orali si tengono all’aperto, all’ombra degli alberi del giardino. Al pomeriggio invece, suor Nirmala e suor Carmela danno ripetizioni: «Anche una bambina di appena tre anni ci ha chiesto di farle lezione», spiega suor Carmela ridendo. A volte le due suore aiutano anche i sacerdoti del Pime, che hanno imparato l’hindi in missione, perché nel Sud dell’India non sempre viene insegnato a scuola.
Le religiose vanno in visita alle famiglie dei villaggi insieme ai padri. In sella alla moto, si percorre l’unica strada che collega abitazioni e piantagioni di tè per ascoltare i problemi dei parrocchiani: molte mogli raccontano di essere state lasciate dal marito e chiedono un aiuto con la burocrazia. In altre case c’è bisogno del sostegno dei missionari perché c’è chi beve troppo, spesso riso fermentato prodotto localmente. «Ma le situazioni peggiori le vediamo quando qualcuno si ammala», dice padre Bala.
Sebbene le aziende che gestiscono le piantagioni abbiano messo a disposizione servizi sanitari di emergenza, gli ospedali, oltre a essere lontani, sono anche molto costosi per gli adivasi: la maggior parte della gente preferisce non andarci. «Anche per le medicine si rivolgono a noi, perché nessuno riesce a permettersele – prosegue ancora il sacerdote -. Durante la Messa non riceviamo offerte in denaro, ma chili di riso e patate, che rivendiamo a un prezzo più basso alle famiglie più povere», commenta il missionario 32enne. I parrocchiani, poi, frequentano la casa dei padri per ottenere la firma dei sacerdoti sui certificati di battesimo e matrimonio, oppure per prendere acqua potabile dalla cisterna, costruita grazie ai finanziamenti dell’Istituto. «Ci sarebbero anche altre cisterne tra i villaggi che sono state costruite dal governo, ma non viene fatta la manutenzione, per cui diventano inutilizzabili».
Nonostante la mancanza di risorse e l’estrema povertà, gli abitanti di Kharubanga sono comunque felici e orgogliosi di far parte della comunità cristiana e avere allo stesso tempo mantenuto le proprie tradizioni tribali. Un catechista della parrocchia (ne risiede almeno uno in ogni villaggio) una sera ha voluto far sentire ai missionari come la figlia di sei anni aveva imparato la preghiera del Padre nostro in inglese. Un intero villaggio di 60 famiglie si è convertito al cristianesimo lo stesso giorno. I giovani si rallegrano per la presenza dei religiosi alle loro feste di fidanzamento, che si svolgono secondo la tradizione: i futuri sposi, seduti uno di fronte all’altra in mezzo alla comunità, si scambiano una candela accesa e poi bevono dell’acqua uno dalla coppa dell’altra. I festeggiamenti durano fino a notte fonda: «Noi indiani del Sud – commenta padre Bala – non siamo abituati a tutti questi balli e canti di gruppo», rigorosamente scanditi dal mandar, il tipico tamburo tribale dalla forma allungata.
Ma la festa indigena più importante resta quella di Karam, celebrata ogni anno tra fine agosto e inizio settembre per chiedere che il raccolto sia abbondante. Il nome deriva da quello dell’albero di kadamba, un sempreverde da cui si ricava il legame. Per l’occasione gli adivasi indossano i tipici abiti bianchi ricamati di rosso e ancora una volta si balla al ritmo dei mandar. «C’è ancora tanto da fare per le persone qui – dice padre Bala -. La chiesa verrà inaugurata a novembre. Ma è importante non forzare i tempi: il nostro lavoro è accompagnare questa comunità come meglio possiamo».