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L’altra Palestina che resiste

Non solo Gaza: oggi la Cisgiordania è assediata dall’esercito israeliano e subisce le violenze dei coloni estremisti. Ma l’incubatore di imprese sociali fondato da una giovane di Betlemme crea opportunità per i ragazzi e le donne

«La scorsa settimana dovevo fare un viaggio di lavoro e per percorrere un tragitto che normalmente richiederebbe tre quarti d’ora di auto ci ho messo dodici ore! Ormai siamo prigionieri nella nostra stessa terra…». Parla con tono amareggiato e con le lacrime agli occhi Sulaima Ramadan, giovane cresciuta a Betlemme, che nell’ultimo anno e mezzo ha vissuto sulla sua pelle il grave deterioramento della situazione in Cisgiordania. Questa è “l’altra Palestina”, quella che, mentre Gaza veniva martellata dai bombardamenti israeliani, rimaneva più lontana dai riflettori del mondo, nonostante un’ondata di violenza incontrollata da parte dei coloni estremisti, fiancheggiati spesso dagli stessi soldati.

Oggi tutto il territorio della West Bank, la “riva occidentale” del fiume Giordano, è sotto assedio: se le operazioni militari prendono di mira regolarmente i campi profughi di città come Jenin, Tulkarem o Nablus, dappertutto checkpoint e posti di blocco improvvisati rendono un inferno la vita quotidiana della gente. «Non possiamo programmare niente e anche il nostro lavoro con i giovani è diventato più complicato: spesso dobbiamo trovare il modo di ospitarli per la notte dopo i corsi, perché mettersi per la strada sarebbe troppo pericoloso». Sulaima si riferisce ai ragazzi che partecipano agli incontri di formazione sull’imprenditoria sociale organizzati da Ibtikar, un incubatore di impresa che questa intraprendente 35enne, discendente da una famiglia originaria di Gerusalemme costretta a rifugiarsi a Betlemme nel 1948, ha messo in piedi sei anni fa e che oggi rappresenta un brillante esempio di sviluppo dal basso oltre i vincoli dell’occupazione. Basato sui pilastri del sostegno all’istruzione di qualità e della promozione di «un modello aziendale rivolto al profitto non solo del singolo ma dell’intera comunità», Ibtikar raggiunge ogni anno con le sue attività oltre 1.200 fra giovani, donne, insegnanti e bambini. Sostenendo la resilienza di un popolo che cerca di restare in piedi e guardare avanti nonostante tutto.

La strada di questo piccolo miracolo è iniziata quando Sulaima era fresca di master in cooperazione internazionale e sviluppo all’Università di Betlemme: «Lavoravo già come contabile in un’azienda, ma mi resi conto che volevo fare qualcosa per contribuire a migliorare la vita della mia gente», racconta.

«Avevo fatto un’esperienza nei campi profughi locali insieme ad alcuni giovani che portavano avanti attività di utilità sociale. Per esempio, recuperavamo scarti in legno per realizzare giocattoli educativi. Così nel 2015 risposi al bando dell’organizzazione Yes Theatre di Hebron che stava cercando di far partire un progetto per migliorare il benessere psicosociale dei più piccoli attraverso il teatro delle marionette, ma si stava scontrando con le difficoltà di un contesto particolarmente complesso e teso». Sulaima accettò la sfida e, grazie alla sua tenacia e alla conoscenza delle dinamiche locali, “Puppets 4 Kids” si trasformò in un successo. «Per me fu l’occasione di approfondire sul campo le mie conoscenze e rafforzare la mia visione personale».

Una visione che la giovane aveva maturato all’interno di una famiglia speciale: «I miei genitori erano una coppia “mista”: mia madre cristiana e mio padre musulmano, e hanno educato me e i miei sette fratelli e sorelle al valore del dialogo e dell’apertura mentale. Non solo, grazie a loro ho interiorizzato la responsabilità di impegnarmi dando sempre il meglio di me per il bene di chi mi sta intorno». Così, dopo cinque anni, Sulaima scelse di lasciare Yes Theatre per mettersi alla prova con un’iniziativa nuova: «Mi ero resa conto della mancanza di una realtà locale che potesse fornire il supporto necessario ad aspiranti microimprenditori sociali», racconta. Servivano opportunità di formazione, aiuto nella ricerca dei fondi, contatti con altre realtà e con il mercato. «Insieme ad altri tre ragazzi, decidemmo di dare vita a un incubatore di impresa. All’inizio la strada fu in salita, non riuscivamo a trovare enti donatori che ci sostenessero e, a un certo punto, i miei compagni scelsero di gettare la spugna. Per me fu un momento decisivo. Mi chiesi: “Posso farcela da sola?”. Anche in quell’occasione fu centrale il ruolo della mia famiglia: da una parte, mia sorella si offrì di collaborare con me a titolo volontario per un periodo, mentre dentro di me sentii forte l’incoraggiamento di mio padre, che purtroppo nel frattempo era venuto a mancare, ma che sognava che riuscissi a realizzare il mio progetto».

Nacque così Ibtikar (“innovazione” in arabo), che riuscì a intercettare alcuni finanziatori – tra i primissimi ci fu la cooperazione tedesca – disposti a puntare su un modello inedito orientato a creare occupazione in particolare per i giovani e le donne: «Da una parte, formiamo i ragazzi a un settore che non è “non profit” ma punta a creare un profitto allargato all’intera società, e poi li assumiamo part time per affiancare donne che vogliono trasformare le proprie abilità in strumenti di reddito, a cui garantiamo un piccolo finanziamento».

Artigianato o produzione di saponi e candele, ricami, cosmesi o catering: sono tante le idee per emanciparsi, in un contesto ogni giorno più difficile. Non a caso oggi cinquanta collaboratrici di Ibtikar lavorano da casa, per evitare le difficoltà e i pericoli degli spostamenti. «Poi noi – spiega la titolare – passiamo periodicamente a ritirare i prodotti che cerchiamo di inserire nei circuiti del mercato, locale e internazionale. Così queste donne oggi sono quelle che garantiscono l’unico – seppur ridot­­to – reddito delle proprie famiglie».

Uno dei progetti più significativi sostenuti dall’incubatore e che oggi cammina sulle sue gambe è quello delle “bambole palestinesi”: «Abbiamo deciso di valorizzare la tradizione dei ricami stilizzati sui thobe, gli abiti locali, che sono tipici delle diverse aree, da Gerusalemme a Hebron, da Ramallah a Gerico. Grazie alle ricerche su documenti degli Anni 20 del Novecento siamo risaliti al significato simbolico di ogni ricamo – fiori e uccelli della zona, fiumi, monti – e poi abbiamo deciso di creare delle bambole che li riproponessero sui propri indumenti. Un modo per conservare il patrimonio culturale locale e dargli nuova vita a vantaggio di una comunità che sente ogni giorno il pericolo di venire spazzata via».

Proprio per cercare di costruire, invece, un futuro possibile, Ibtikar investe molto anche sull’istruzione di qualità, che per Sulaima rappresenta una delle chiavi per lo sviluppo della sua terra: «Tra le conseguenze della pandemia di Coronavirus, i condizionamenti del conflitto e gli scioperi degli insegnanti che spesso non vengono pagati perché Israele ha bloccato la redistribuzione delle nostre tasse, negli ultimi anni il livello dell’apprendimento si è abbassato paurosamente – racconta -. Oggi ci sono bambini di quinta elementare che ancora non sono in grado di leggere!». Per questo sono nati i corsi di formazione per insegnanti – che puntano sull’istruzione informale e sull’educazione al pensiero creativo – e quelli per gli studenti universitari che vengono poi trasformati in tutor degli studenti più giovani. «Il nostro obiettivo è formare nuovi cittadini che non si aspettino il cambiamento a partire dai leader, ma lo portino avanti in prima persona, dalla base. In questo momento possiamo fare affidamento solo su noi stessi e sulla rete di persone che, a livello internazionale, non smette di rilanciare le nostre voci per una Palestina in cui regnino la libertà e la giustizia».

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