Antiterrorismo
Dopo l’attentato terroristico di Dhaka, avvenuto in un ristorante il primo luglio dell’anno scorso, la paura era diffusa – e le vendite di telecamere a circuito chiuso per controllare entrate, cortili, sale e quant’altro andarono alle stelle. I parrocchiani di Mirpur cercarono di persuadere il parroco p. Quirico, e il sottoscritto, che un impianto del genere era assolutamente necessario; non ci riuscirono, ma non si scoraggiarono: raccolta la somma necessaria, strapparono il permesso di sistemare l’impianto con tre telecamere nei punti strategici. Poi si rilassarono contenti: ora siamo sicuri…
Infatti, non successero incidenti di sorta, se non che – dopo circa un anno – una signora, tornando al suo posto dopo aver ricevuto la Comunione durante la Messa, vide che la sua borsetta era sparita. Stupore, indignazione, commenti… poi, per qualche settimana ogni tanto spariva un paio di scarpe in buono stato (qui da noi si entra in chiesa a piedi scalzi) e rimanevano desolate in veranda una signora a piedi scalzi, e un un paio di vecchie ciabatte non sue. Poiché l’atmosfera rischiava di avvelenarsi, si decise di tenere chiusi i cancelli al momento dell’uscita, finché tutti avessero recuperato le loro calzature, scarpe o ciabatte che fossero: un provvedimento astuto, unanimamente approvato, e mai messo in pratica. Finchè un’altra borsa scomparve durante la distribuzione della Comunione…
Fu allora che qualcuno si ricordò dell’impianto antiterroristico, e alcuni volontari si diedero a controllare i filmati, alla ricerca non di bombe o cinture esplosive, ma di una borsetta – che venne trovata! Una donna sconosciuta appariva mentre s’affrettava verso il cancello con la refurtiva, prima della fine della Messa. “Non si farà più vedere” sentenziò qualcuno. Ma dopo oltre un mese la signora riapparve, e venne riconosciuta. Allora sì, i cancelli vennero chiusi, e la signora, fermamente invitata ad andare in sacristia, dovette fronteggiare una decina di membri del consiglio parrocchiale, insieme al facente funzioni del parroco. L’accusa era ampia: scarpe in numero imprecisato, e due borsette, ma la signora negava. Dopo qualche tira e molla, il segretario parrocchiale, che conduceva l’interrogatorio, tirò fuori l’asso che teneva nella manica: la ripresa delle telecamere: “Lasciamo perdere tutto il resto, ma abbiamo le prove che una borsetta l’hai rubata. Se lo ammetti, bene, altrimenti… polizia”. Mentre parlano, finalmente ricordo di averla già vista: viene da lontano; l’ho aiutata almeno due volte, pur con qualche dubbio, perché evidentemente ammalata, e – secondo il suo racconto – completamente sola. Indù, aveva sposato un cristiano che poi l’aveva piantata in asso e ora era rifiutata dagli indù e sconosciuta ai cristiani che aveva frequentato per poco tempo. Mi guarda a lungo. Le sussurro: “Ti hanno indicato la via per uscirne, coraggio…”. Ammette, negando – non creduta – di aver preso anche le scarpe e l’altra borsetta. Seguono vari predicozzi, dal sapore inevitabilmente ipocrita, di alcuni dei presenti, che esprimono in vari modi il concetto fondamentale che: “I cristiani non fanno queste cose”. Già…
Finalmente lo spettacolo finisce: “Vai, non ti facciamo nulla, ma non farti più vedere”. E i “giudici” se ne vanno. Rimaniamo di fronte, lei e io, a lungo. S’incidono nella memoria e nel cuore il suo volto magro e terreo, le sue parole disperate. Le do quel poco che ho in tasca al momento, poi mi dice: “Come faccio a uscire con questa vergogna?” L’accompagno per mano fino al cancello, per un addio tristissimo, e senza speranza di rivederci. Come faccio a ricordarla senza angoscia?
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