Bilancio
La sparuta ma baldanzosa pattuglia di missionari del PIME in Bangladesh si raduna al completo 4 volte all’anno: un ritiro spirituale, un “corso di aggiornamento” ultrasintetico su un tema che c’interessa, due “assemblee” con valutazioni, scambi, progetti. Ogni incontro significa pure informazioni, chiacchiere, confidenze, arrabbiature, consigli, degustazione di pizza, pasta al forno e via cucinando. Ogni quattro anni, fatto un bilancio più accurato del solito, si eleggono il nuovo “Superiore Regionale” e quattro consiglieri. L’assemblea del 12-15 novembre scorso era di questo tipo, e questa “scheggia” ne approfitta per aggiornare anche voi.
Quanti siamo? La relazione del superiore uscente dice 24, di cui un missionario laico Pime, 21 preti Pime, 2 preti associati. “Fasce di età”: anni 30-39 = 4 (di cui uno, indiano, arrivato nuovo nuovo due giorni prima); 40-49 = 4; 50-59 = 3; 60-69 = 4; 70-79 = 8. E poi? E poi, 90 e oltre = 1, al quale però abbiamo dato un saluto pieno di affetto, auguri e rammarico pochi giorni dopo l’assemblea. Ora dunque siamo 23; p. Adolfo L’Imperio è in Italia, nella comunità di Lecco, dove ha ritrovato tanti amici dei bei tempi (se mi legge, certo commenterà: perché, questi tempi non sono belli?). P. Adolfo è l’ultimo di noi arrivato qui in quello che si chiamava Pakistan orientale; nel 1971 si è goduto 10 mesi di terribile guerra di secessione o indipendenza che dir si voglia, a seguito dei quali, senza muovere un passo, si è ritrovato in un altro paese, il Bangladesh. Ha lavorato nei villaggi Santal, nella Caritas prima ancora che nascesse, ha fatto pastorale, organizzato scuole e ostelli, s’è tuffato nell’enorme sforzo compiuto dalla piccola chiesa bengalese per riabilitare milioni di persone che guerra e cicloni avevano ridotto alla fame. Ha progettato decine di edifici: chiese, scuole, conventi, seminari e anche una nunziatura. È stato superiore regionale ed economo generale (a Roma), ha mangiato tre tonnellate circa di gelati e cioccolato (record raggiunto in pochi anni, perché ai “bei tempi” i gelati qui non si trovavano), ha raccontato un’infinità di battute e barzellette, ha pregato un sacco…
Proveniamo da: Brasile (1), Camerun (2), Colombia (2), India (2), Italia (17). Lavoriamo in tre diocesi: Dinajpur (11), Rajshahi (6) e Dhaka (6). La panoramica delle attività comprende le missioni “classiche”, parrocchie dove ci si cura della pastorale fondamentale: insegnamento del vangelo, sacramenti, associazioni formative e di preghiera, assistenza ai malati, catechismo, preparazione al matrimonio, visite a villaggi e centri periferici, catecumenato, ostello per ragazzi e ragazze (generalmente responsabilità delle suore, come il dispensario medico). Oltre i confini parrocchiali: formazione di laici, religiose, seminaristi, strutture di servizio sanitario, iniziative per disabili, pubblicazioni, bambini in strada, “microcredito” (inventato dai missionari, non dal premio Nobel Yunus), formazione giovanile e vocazionale, formazione tecnica, momenti ricreativi, pellegrinaggi, incontri ecumenici e interreligiosi e varie altre cose che ora non mi vengono in mente… Da qualche anno accogliamo giovani (al momento 21) che vogliono entrare nel PIME, fino ad accompagnarli a entrare nel seminario delle diocesi bengalesi, qui a Dhaka, per poi proseguire nel seminario internazionale del Pime, a Monza. Cinque bangladesci sono già missionari Pime a pieno titolo, e si trovano in Papua Nuova Guinea, Filippine, Italia, Camerun, Brasile.
L’ultimo incontro – anche per bocca di p. Lourdh Xavier, pimino indiano eletto recentemente consigliere generale e in visita da noi – ha ribadito che non dobbiamo stancarci di “partire”, “lasciare”, “iniziare”. In concreto, non siamo fatti per fondare un ospedale, una parrocchia o una grande scuola e gestirli a tempo indeterminato. Cerchiamo luoghi e ambienti che rispondono al nostro “carisma”, e quando ci pare che altri possano andare avanti, magari anche meglio di noi, volentieri passiamo loro la responsabilità, per ricominciare altrove.
Insomma, siamo quattro gatti ma di chiasso ne facciamo.
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