Canapa
La foglia, quando è ancora tenera, si cucina ed è un’ottima verdura, da fare invidia agli spinaci… È un arbusto elegante, dritto, sottile e piuttosto alto che cresce su terreni allagati (tipo risaie). In inglese è “jute”, in italiano “canapa”, in bengalese “pat” (“t” palatale, per favore…). Seminato fittamente, colma di verde intenso grandi estensioni pianeggianti: da oltre due secoli fa parte del panorama del Bengala, specialmente nella parte centro meridionale.
La coltivazione richiede cura, e fatica. Al momento del raccolto, immersi nell’acqua, i lavoratori tagliano gli arbusti alla base, legandoli in fasci che lasciano sul posto a macerare, diffondendo un caratteristico odore acre. Quando la fibra inizia a staccarsi dal tronchetto centrale, i fasci vengono “battuti” con forza, ripetutamente, sulla superficie dell’acqua, con un ampio movimento del torso e delle braccia, finché si separa completamente. Allora si fa asciugare disposta in sostegni sulla riva; poi, legata in grandi, pesanti matasse dorate, la portano a stabilimenti (“jute mills”) per farne corde, tappeti, tessuti grezzi, sacchi, ecc. Il tronchetto centrale, privato della fibra esterna, è liscio, leggero e fragile; con pazienza, donne e bambini lo dividono in pezzi lunghi circa 40-50 centimetri, mescolano sterco di vacca con pula di riso e appiccicano l’impasto intorno agli steli, facendo insoliti “spiedini”che espongono al sole. Ben secchi, costituiscono un ottimo combustibile per cucinare.
La Gran Bretagna, nel periodo coloniale, ha incoraggiato e diffuso la coltivazione della “jute” perché trovava qui clima e terreno ideali, e buoni mercati d’acquisto in varie parti del mondo. Si coltivava pure l’indaco, che cresceva molto bene in bengala e veniva usato per produrre coloranti; ma quando venne sostituito da altri prodotti sintetici, non ci fu più convenienza, e rapidamente la canapa ne prese il posto. Però anche per questo prodotto non è sempre andata bene. Ci fu una crisi al momento dell’indipendenza (1947) quando India e Pakistan si separarono: la canapa veniva coltivata nella parte che divenne Pakistan Orientale, mentre le fabbriche per la lavorazione si trovavano nella parte che rimase India, verso Kolkata: li separava il nuovo confine politico che fu ben presto chiuso. Fu crisi per gli industriali in India e per i coltivatori in Pakistan Orientale – poi divenuto Bangladesh (1971). Non so che cosa successe in India, ma in Pakistan/Bangladesh gradualmente crearono nuovi stabilimenti (jute mills) e gradualmente la crisi fu superata.
Ma arrivò il tempo della plastica e delle fibre sintetiche, che rapidamente diminuirono l’importanza e il valore della canapa. Questo fatto, unito alla concorrenza di altri paesi (specialmente Cina), ad una politica ondivaga e contraddittoria e a tanta corruzione, mantennero il settore in perenne situazione di crisi, anche se si produceva e si esportava, e la canapa costituiva, dopo il riso, uno dei prodotti principali del Bangladesh.
Ora le industrie ci sono, e la canapa ha perso importanza, ma ha ancora il suo posto nell’economia del paese. Fra l’altro, il Bangladesh ha creato centri di ricerca di tutto rispetto, che sperimentano, selezionano e diffondono qualità di canapa migliori, per produrre tessuti che facciano concorrenza alle fibre sintetiche e al cotone. Sono anche molti i prodotti artigianali a base di canapa, spesso sostenuti da Organizzazioni non Governative e da gruppi ecologisti, mentre alcuni paesi e ditte europei hanno creato corsie preferenziali per usare prodotti in fibra naturale, e quindi canapa, sia come componenti di alcune parti delle automobili, sia come borse per la spesa, sacche e altro.
Ma gli stabilimenti statali per la lavorazione della canapa non sono mai riusciti a far quadrare i bilanci. Per questo, a fine giugno il governo ha drasticamente deciso la chiusura completa di oltre venti “jute mill”, a partire dal primo luglio. Ai lavoratori fissi sono state promesse liquidazioni “dorate”, ai precari (alcuni continuano come precari da trent’anni…) nulla. A tutti, per altoparlante, è stato comunicato che devono sgombrare alla svelta le case dove abitano, di proprietà governativa; la polizia presidia le aree vicine agli stabilimenti; due sindacalisti sono stati incarcerati con l’accusa di atti di vandalismo commessi due anni fa durante una manifestazione per avere gli stipendi arretrati…
Commercianti, produttori privati, esportatori non sembrano troppo preoccupati: la parte gestita dallo stato non era più di grande rilevanza, e loro sperano di poterla assorbire, ridando vitalità alle proprie ditte che stavano vivacchiando. Quanto ai 25 mila dipendenti, sarebbe stato difficile trovare un momento peggiore per informarli che non avevano più lavoro né casa. Siamo devastati dalla pandemia e dalla miseria. Ci mancava proprio questo…
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