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Centenario

Il 27 marzo 2020 ricorre il centesimo anniversario della nascita di Sheikh Mujibur Rahman. È considerato “padre” della patria perché alla guida del partito Awami League ne preparò il distacco e l’indipendenza dal Pakistan. Nel 1970, quando venne eletto con una travolgente maggioranza, i centri di potere del Pakistan occidentale ne impedirono l’apertura, e lui venne deportato. L’indipendenza fu proclamata clandestinamente in suo nome, mentre era in prigione. Dopo 10 mesi di sanguinosa guerriglia, l’intervento dell’esercito indiano e la resa dell’esercito Pakistano, fece un ritorno trionfale e assunse la guida del nuovo paese come suo presidente per circa 6 anni. Fu ucciso il 15 agosto 1975 in un complotto politico-militare che aprì la porta a un lungo periodo di instabilità politica e violenze, di restaurazione di chi si era opposto all’indipendenza e alla secolarizzazione, di governi e dittature militari. I ribelli dovevano essere consapevoli del fascino che quest’uomo, con la sua oratoria straordinaria in un paese che dà grandissima importanza alla lingua e alla retorica, aveva sulla gente, e della forza anche politica che i legami famigliari hanno in questa parte dell’Asia. Per questo, insieme con lui, si preoccuparono di massacrare ben quindici membri della sua famiglia e della servitù. Mancarono però una parte importante dell’obiettivo: due figlie di Mujibur Rahman erano all’estero per studi, e si salvarono. La figlia maggiore, appena pensò di potercela fare, ritornò in patria e incominciò a tessere una paziente e lungimirante tela politica che la portò al potere una prima volta negli anni ’90 e poi di nuovo per 3 mandati consecutivi fino ad oggi nel nuovo millennio. Paziente, dicevo: Hasina si preoccupò di riunificare e consolidare il partito, accettando il gioco democratico e la competizione specialmente con il Partito Nazionalista del Bangladesh (BNP), fondato dal generale che – pochi anni dopo la morte di Mujibur – si era proclamato presidente, e poi guidato dalla sua vedova Khaleda Zia, la sua odiata “arcirivale”. Fuori bersaglio nel 1975, Hasina subì vari altri tentativi di uccisione, scampando anche a due attentati particolarmente gravi in cui morirono decine di persone. La lotta ebbe vicende alterne finchè, poco più di sei anni fa, si inasprì in un braccio di ferro con violenze di ogni tipo sulle strade, dove il Partito Nazionalista si giocò praticamente tutto; Hasina tenne duro, il BNP per protesta si ritirò dalle elezioni, e quasi scomparve dalla scena politica: era iniziata la resa dei conti che Hasina aveva atteso e preparato. Una serie di processi, da lei promessi e fortemente perseguiti, rispolverò i crimini di guerra del tempo della lotta di liberazione, concludendosi con la condanna a morte – prontamente eseguita – di tutti i capi del partito Jamaat, islamico e alleato del BNP, mentre quest’ultimo – assente dal parlamento ed esausto per l’impegno di una lotta feroce che si ritorse contro di loro – affrontava una tempesta di processi per corruzione. Hasina, saldamente al comando, ne approfittò per riprendere in mano il filo del discorso rimasto interrotto con l’uccisione del Padre della Patria tanti anni prima, e poi contraddetto da tanti interventi – fra cui alcuni legislativi e anche di revisione delle costituzioni, intesi a ridare più spazio all’islam politico e ai filo pakistani. Ebbe l’intelligenza di non percorrere la strada, fin troppo facile, di disfare i provvedimenti di restaurazione e rimettere in piedi ciò che era stato demolito. Prese il discorso più alla larga, saldando, come ho detto, i conti lasciati aperti dalla guerra, e poi impegnandosi in una politica di rilancio dell’identità del Bangladesh e quindi del ruolo di suo padre, Mujibur. Bongobondhu, “amico del Bengala”, così veniva chiamato dai suoi fedeli Mujibur, e la figlia si preoccupò di far capire a tutti che proprio lui aveva la chiave per creare un paese libero, democratico, di cui non dovessero aver paura neppure i più devoti islamici, che blandì con concessioni intese ad averne l’appoggio e il controllo. Fino a dove ci sia riuscita o riuscirà non saprei dirlo, ma il tentativo è evidente. Hasina ha battuto sul tema della storia che ha condotto il paese alla separazione dal Pakistan, ha rilanciato una politica di amicizia (guardinga) con l’India, ha aperto le porte a investimenti di ogni tipo, promettendo tra l’altro un “digital Bangladesh”, e accompagnando un periodo di straordinaria crescita economica. Bongobondhu è il “santo protettore” il cui pensiero soltanto può garantire che questi successi continuino e vadano a favore del popolo. Tutto è nel nome della cultura bengalese, islamica, aperta e tollerante, modello mondiale di convivenza. Gli “aborigeni” sono cancellati dal vocabolario, si tratta di “minoranze” e basta, e del trattato di pace che oltre 25 anni fa pose fine alla loro guerriglia nel sud, ogni anno viene detto che bisogna avere pazienza e fiducia, perché presto tutte le clausole saranno realizzate. I cent’anni della nascita di Mujib sono come il momento culminante di questa politica culturale che Hasina persegue tenacemente, mentre la “arcirivale” è in carcere e gli avversari sembrano allo sbando. Le strade sono già stracolme di fotografie di Mujib che tiene comizi, che sorride, che studia, che indica la strada, che stringe mani… un ministro ha proclamato tre mesi di preparazione all’anno di celebrazioni, raccomandando di dare alla preparazione il dovuto risalto ed entusiasmo, e un altro ha raccomandato che si tratti di entusiasmo moderato, per non esaurirlo tutto prima che l’anno celebrativo prenda il via. Vedremo.

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