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Icona decorativaIcona decorativa21 Settembre 2020 Franco Cagnasso

Charles de Foucauld (3)

In quegli anni uscì il libro “Lettere dal deserto”, di Carlo Carretto. Ex presidente nazionale dell’Azione Cattolica, era entrato nella Congregazione dei Piccoli Fratelli, e il libro descrive la sua esperienza durante il loro noviziato, nel deserto. Mi aiutò a desiderare una fede che non cerca pubblicità, una visibilità che può diventare mondana. Mi rimase impresso il capitolo “La coperta di Kadà”: con il semplicissimo racconto di un episodio banale, ridimensionava “l’eroismo” del missionario, e m’insegnò, come aveva fatto lo scoutismo, a guardare le fatiche degli altri, prima di lamentarmi delle mie. Era un altro appello a interiorizzare il mistero di Nazareth, che illumina valori, stili e metodi compatibili con ogni modello di vita e apostolato. Il nascondimento non era una strategia, ma il bisogno di essere discepolo nel mistero della sua umiltà e della sua normale avventura di essere umano: una forma della sequela di Gesù. Cacciai il naso anche a Bose, altro luogo di ricerca seria, e vi passai varie volte giornate interessanti e fruttuose di preghiera e ascolto. Cercavano di rinnovare la vita monastica, della cui tradizione sapevo ben poco. Anni dopo invitai Enzo Bianchi a predicarci gli esercizi in Bangladesh; ne fummo soddisfatti, grati, e lui disse simpaticamente: “Ammiro molto la vostra vita, ma non mi sentirei di viverla, non fa per me”. “È proprio quello che io penso di voi e della vostra vita” commentai. Chiesi di studiare islamismo e arabo, e questo mi diede occasione di andare a toccar con mano un frutto “postumo” di Charles de Foucauld. Con p. Achille Boccia ci sorbimmo il viaggio in treno da Roma a Casablanca, in Marocco, dove ci aspettava P. Michel Lafon, che ci condusse subito a El Kbab. Michel era un prete diocesano francese, successore di un altro diocesano, Albert Peiriguère che, conquistato dalla spiritualità di Charles De Foucauld, l’aveva vissuta alla lettera in quella località dispersa e poverissima. Il suo eremo era nella parte alta, ai margini del villaggio, e le sue attività erano la preghiera, un semplice servizio di assistenza paramedica ai poveri, l’ascolto della gente. Si fece rispettare e amare; pur essendo tutti musulmani, lo consideravano il loro padre spirituale. Padre Lafon lo raggiunse e ne condivise la vita per qualche tempo, prendendosi cura di pochi cristiani stranieri che lavoravano in cantieri petroliferi a oltre cento chilometri di distanza. Quando Peyrigueère morì, rimpianto da tutti, Lafon rimase e ne raccolse l’eredità. Trascorremmo con lui un mese semplice e intenso di lavoro manuale, preghiera, lunghe condivisioni e scambi di idee. Ci orientò a praticare alcune “giornate di deserto”, particolarmente intense grazie all’ambiente naturale, sociale e spirituale in cui eravamo immersi. Eravamo andati anche con la speranza di praticare un poco l’arabo, ma scoprimmo che molti “arabi” del nord Africa sono in realtà berberi; a El Kbab si parlava il berbero… Un giorno, guardando dall’eremo la grande vallata brulla e le catene di montagne che si susseguivano a perdita d’occhio di fronte a noi, P. Michel disse: “Ogni tanto ancora mi chiedo: che cosa faccio qui, unico cristiano per centinaia di chilometri? Celebro la Messa per questa gente: ecco la mia risposta.” “Anche noi possiamo celebrare per loro, da Roma” obiettai. E lui: “Certo, ma l’Eucaristia è un segno, e il segno deve essere percepito. Tutti quanti sanno che prego per loro, e sono contenti proprio perché sto con loro. Mi chiedono di farlo e mi ringraziano”. Ci comunicò alcune delle sue conversazioni con anziani pieni di fede, che gli dicevano con semplicità: dopo averti conosciuto non riusciamo più a pensare che voi andrete all’inferno perché non siete musulmani. Anzi, tu e io siamo amici: il primo di noi che andrà lassù, darà una mano all’altro per raggiungerlo e stare insieme…”. Suggerendo ai giovani che si confidavano con lui, di scrivere qualche nota su “I Ramadan della mia infanzia”, aveva raccolto interessanti testimonianze di tradizioni e devozioni che andavano scomparendo. Achille e io apprezzammo una biografia di P. Peyriguère che aveva pubblicato in Francia; la facemmo tradurre in italiano e pubblicare dalla EMI (1977) con il titolo “Una vita che grida il Vangelo”. Fu un flop editoriale… Il periodo a El Kbab ci confermò nel desiderio di essere missionari soprattutto con la nostra presenza, e con la nostra umile ricerca di Dio che non è lontano da nessuna delle sue creature. In un certo senso gli scritti e le biografie di Charles de Foucauld avevano perso un po’ della poesia di cui li avevo circondati, ma avevano guadagnato in consistenza, erano diventati più veri. (continua)

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