Emilio 1
P. Emilio Spinelli, un caro amico, era originario di Cernusco sul Naviglio (Milano), aveva 76 anni ed era stato missionario in Bangladesh ininterrottamente dal 1975 fino ad un anno e mezzo fa, quando fu colpito duramente dal Covid. Portato a Dhaka, si rimise a sufficienza per organizzare un rientro in Italia e tentare di curare i gravi problemi di salute che lo avevano fatto soffrire già prima della pandemia. È morto il 12 agosto scorso a Lecco, nella casa del PIME. P. Ferruccio – superiore generale – mi ha chiesto di tenere l’omelia alla celebrazione eucaristica di suffragio celebrata il 13 agosto. Ne riporto il testo qui sotto, con qualche ritocco.
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Celebrazione Eucaristica di suffragio
Lecco, 13 agosto 2022
Spesso ringrazio Dio per i doni che ho ricevuto, e quando lo faccio ricordo che la vocazione missionaria mi ha dato la possibilità di conoscere e frequentare tante persone belle. Belle nella mente, belle nel cuore e belle nelle opere – perché toccate e trasformate dalla Sua grazia.
Fra loro c’è anche p. Emilio, un dono forse avvolto in “carta da pacchi” più che in carta dorata ed elegante, ma preziosissimo. Me lo conferma un breve messaggio mandato dopo la sua scomparsa da un amico suo e mio, p. Gianni Zanchi, che ha scritto: “P. Emilio, il Signore ti dia la ricompensa, perché sei stato un servo fedele amico di tutti”: una “pennellata” proprio giusta: servo – fedele – amico di tutti.
Ho conosciuto Emilio nel 1964, quando ci incontrammo nel seminario che il PIME allora aveva a Cervignano del Friuli. Faceva parte del gruppo delle così dette “vocazioni adulte”, perché era entrato nella formazione del nostro istituto dopo un periodo di lavoro, e seguiva corsi speciali per recuperare il livello scolastico del liceo; io ero là come “prefetto”. Trascorremmo insieme l’anno scolastico 1964-65 e non fu difficile intendersi: era un giovane pieno di vita, simpatico, sereno e generoso, spesso con la battuta originale, ironica, mai cattiva.
Dopo l’ordinazione (1974) ha trascorso 46 anni in Bangladesh: come assistente di p. Di Serio nella missione di Rohanpur, passando poi come responsabile alla missione di Chandpukur, “ereditata” da p. Ciceri; in seguito, ha creato a Bhutahara una nuova missione piena di vita e attività, e poi ancora ha ricominciato a Kodbir, con la comunità avviata da p. Sandro Giacomelli. Trascorse anche un anno come responsabile della nostra scuola tecnica a Dinajpur, la “Novara Technical School”, in un momento difficile, in cui non si sapeva a chi affidarla…
Aveva due “passioni”:
– I giovani: con loro sapeva essere esigente e allo stesso tempo farsi voler bene; gli ostelli erano un po’ “il suo mondo”: impegno ma anche soddisfazione. A chi ce la faceva, dava anche la possibilità di studi superiori. In questo, nonostante qualche frizione occasionale, ha sempre lavorato d’intesa con le Suore, per lo più della congregazione locale “Shanti Rani” e poi con le Missionarie dell’Immacolata.
– Gli ammalati: ne ha fatti curare tantissimi, appoggiandosi al “Centro Assistenza Ammalati”, voluto dalle suore di Maria Bambina e dal PIME, di cui era il “cliente” più fedele – in “concorrenza” con p. Buzzi. Quando poteva, andava a trovarli, per i bambini portava un giocattolino… Riteneva che occuparsi degli ammalati fosse il gesto missionario più diretto, perché applica alla lettera la parola di Gesù, che manda i suoi nei villaggi e raccomanda anzitutto di visitare gli ammalati. Nella malattia non ci sono divisioni religiose, la sofferenza tocca tutti in modo uguale, e l’aiuto in quel momento è più eloquente di tante prediche o dialoghi. Suor Mariagrazia, dell’Istituto di Maria Bambina, che lo incontrò molti anni fa nel nascente “Centro ammalati”, mi ha detto: “L’ho visto poche volte, ma nella memoria m’è rimasto impresso il ricordo del primo incontro con lui, mentre entrava nel Centro portando lui stesso, sulle sue braccia, una donna ammalata”.
Giovani, ammalati… voglio ricordare anche le piante. Dove andava, trasformava zone spoglie in boschi. Raccontava sorridendo di quel vescovo che gli aveva detto: “Sono troppe, nascondono la vista della chiesa…” ma dall’anno seguente – durante il gran caldo di maggio – aveva preso l’abitudine di trascorrere qualche giorno proprio là da lui, cercando l’ombra e il silenzio del bosco…
Ha sempre operato fra i tribali di vari gruppi, appassionandosi alla loro vita, accettando e condividendo le loro abitudini che cercava di capire, lucidamente, con affetto e rispetto anche quando rilevava debolezze e difetti. Osservava, parlava, rifletteva… le sue valutazioni partivano dall’esperienza e non da pregiudizi o luoghi comuni – che sapeva rimettere in discussione e su cui spesso si confrontava con altri missionari.
Aveva esperienza concreta delle difficoltà che le minoranze tribali incontrano, perché spesso oppresse, ingannate e sfruttate dalla maggioranza, e faceva il possibile per stare al loro fianco; ma sapeva creare una rete di rapporti personali amichevoli e di collaborazione, anche con non pochi bengalesi musulmani. Emilio non parlava di “dialogo”, ma lo faceva nella vita quotidiana, senza classificazioni né ostilità preconcette.
Amava la compagnia. Non mancava mai agli incontri dei missionari del PIME in Bangladesh, momenti di gioia spontanea, con interessanti chiacchierate, scambio di esperienze e consigli, animatissime partite a carte.
D’altra parte, l’abitudine a far da sé, insieme con l’originalità di certi suoi metodi e stili di vita (si alzava sempre prestissimo, si trascurava, era a volte impulsivo…), potevano rendere difficile lavorare con lui nella stessa missione. Ha dovuto accettare anche periodi di solitudine, e questo gli pesava. Quando lasciò Chandpukur per andare a Bhutahara, passò da un ambiente a prevalenza Santal ad un ambiente a prevalenza Orao (altra lingua, altra cultura, altri stili di vita…).Doveva organizzare e costruire tutto da zero, in una località che a suo parere non era stata scelta bene e dove non conosceva nessuno; fu per lui un grande sacrificio, come una lunga quaresima che seppe comunque affrontare senza vittimismi.
Sembrava a volte trascurato; certo con se stesso e con la sua salute lo era. Ma aveva una vita interiore intensa e sensibile. Una volta mi chiese di aiutarlo, perché alcune sue battute scherzose erano state interpretate come ostili da un confratello, che aveva reagito scrivendogli una lettera molto dura. I miei tentativi di chiarire l’equivoco in un primo momento non ebbero successo, e questo causò ad Emilio un profondo disagio: “Bisogna che ci capiamo, non riesco a sopportare un rapporto così…” mi diceva.
Non credo che abbia mai contato quante persone, e nemmeno quante famiglie o villaggi abbia accompagnato al battesimo, certamente tante, ma non sottolineava i “successi”, cercava di andare alla sostanza; mi confidò: “Può capitare di intuire come il Vangelo cambia davvero l’interno, il cuore delle persone, e scoprirlo mi dà una grande gioia.” Una volta ascoltò – non visto – una conversazione fra due anziani, uno dei quali spiegava all’altro perché aveva deciso di avvicinarsi al cristianesimo: “Diceva cose molto semplici, ma vere e profonde; avevo avuto l’impressione che le mie spiegazioni non fossero capite; infatti non le ripeteva come le avevo dette io, ma le rielaborava molto meglio, in modo più concreto e adatto a loro!”. Sosteneva che l’elemento essenziale di una vera conversione consiste nell’entrata della preghiera nella vita delle persone: non lunghe orazioni, ma preghiera semplice, personale, segno di un rapporto con Dio.
Credo che fosse quello che cercava anche per se stesso. A parte le celebrazioni eucaristiche e momenti di preghiera comune, non sembrava pregare molto. Ma un seminarista diocesano che aveva trascorso con lui alcuni mesi mi disse: “Sembra che non preghi molto, ma sono sicuro che lo fa, perché la sua vita lo dimostra”. Un apprezzamento indiretto, ma rivelatore, e prezioso!
p. Franco Cagnasso
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